martedì 30 dicembre 2014

il monumento ai Lupi di Toscana


Allontanandosi da Trieste in direzione di Monfalcone, sulla strada statale 14 poco prima del bivio per la Strada del Vallone, su un roccione carsico a sinistra si alza un caratteristico monumento, con due lupi in bronzo.
Monumento tanto caratteristico, ma del quale molti ignorano l'origine; ed ancor più numerosi coloro che ne ignorano la travagliata vita.

Il monumento ricorda i soldati della "brigata Toscana", i cosiddetti "Lupi di Toscana", che nella primavera del 1917 combatterono poco lontano da qui nel corso della Decima Battaglia dell'Isonzo.

Per prima cosa, bisogna dire che il monumento attuale non è quello originale. Il primo monumento, collocato approssimativamente nella medesima posizione, era stato inaugurato il 23 ottobre 1938.
Realizzato dal prof. Ambrogio Bolgiani dell’accademia di Brera, era abbastanza differente rispetto all'attuale: molto più grande, era costituito da tre lupi, di cui uno morente che, cadendo, trascinava con sé un'aquila, simbolo dell’Austria-Ungheria.
Questo monumento originale fu distrutto nel corso della seconda guerra mondiale, ma non è chiaro né quando né da chi.
Secondo alcuni, fu distrutto dai tedeschi nel 1944, forse per recuperare il bronzo.
Secondo altri, a distruggerlo furono invece i partigiani jugoslavi nel maggio del '45.

Il primo monumento, inaugurato nel 1938 e distrutto nel 1944 o 1945

Il cinegiornale "Luce" per l'inaugurazione del primo monumento



Il monumento attuale, opera di A. Righetti, fu inaugurato il 3 novembre 1951; è composto da due lupi in bronzo, simbolicamente rivolti il primo verso il monte Hermada mentre richiama il branco, il secondo invece volge lo sguardo verso il basso, come se volesse controllare il nemico.

L'inaugurazione del nuovo monumento
(3 novembre 1951)


Ma anche il nuovo monumento non ebbe vita facile.
Nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre 1963, in seguito ad un fallito tentativo di furto il monumento fu fatto precipitare nella strada sottostante; restaurato, fu posto nuovamente in sede il 19 gennaio 1964.
In seguito, il monumento fu dipinto di vernice bianca e rossa; ed ancora, nel 1973 fu nuovamente oggetto di furto. Uno dei due lupi di bronzo, segato via dal piedistallo, fu asportato, asseritamente da dei ladri di bronzo. Tuttavia i Carabinieri riuscirono a recuperarlo una decina di giorni dopo, sepolto nell'orto di una casetta a Barcola.
Questo episodio solleva più di una perplessità sul reale movente: se il furto fosse stato consumato effettivamente solo per recuperare il metallo, difficilmente i ladri si sarebbero dati la briga di seppellirlo; ed ancor più difficile che i Carabinieri disponessero di indizi tali da portarli a colpo sicuro ad una casetta di Barcola...
Considerato anche il precedente della vernice, è molto più verosimile un atto dimostrativo, ad opera dei tanti che, da sempre, contestano la reale "italianità" di questa terra.    

Sulle zampe sono visibili i segni della saldatura, dopo il restauro
in seguito al misterioso tentativo di furto del 1973

La saldatura, sulla zampa anteriore, ha parzialmente
cancellato la firma dell'autore: A. Righetti

La lapide sottostante al monumento.
Riporta la data del 2 gennaio 1964; sembra essere sovrapposta
alla lapide originale (vedi foto del 3 novembre 1951)

Talvolta, si sente dire che il monumento è stato eretto sul punto più avanzato raggiunto dai soldati della "Brigata Toscana": anche se ciò è stato ripetuto anche in atti ufficiali (l'ultimo: un'interrogazione parlamentare al ministero della Difesa del 4 dicembre 2014), non è vero: il punto più avanzato toccato dalle truppe italiane si trova qualche centinaio di metri più a nord, in prossimità dell'attuale Cartiera; o, un po' più a est, sui primi contrafforti del Monte Hermada.

Per approfondire:

martedì 9 dicembre 2014

Gli strani utilizzi del Bagolàro



Il Bagolàro (o "bobolèr", ma noto anche come "Lodogno", "Spaccasassi" e "Albero dei Rosari") è un grande albero (Celtis Australis) molto diffuso sul Carso, sul cui terreno attecchisce molto bene.
Ha un caratteristico legno chiaro, duro, flessibile, tenace ed elastico e di grande durata; un tempo ricercato per mobili, manici, attrezzi agricoli e lavori al tornio. Oggi, al più, viene apprezzato come ottimo combustibile.

La diffusione del "bobolèr" in zona favorì nel corso dell'800 il prosperare a Trieste di due curiose industrie: la prima è quella delle bacchette per direttori d'orchestra, per le quali il legno di Bagolàro era insuperabile per le sue caratteristiche di resistenza, leggerezza e flessibilità. Umili rami nati tra il pietrame del Carso finirono quindi in mano ai più famosi direttori di tutte le maggiori orchestre d'Europa, a disegnare nell'aria il ritmo dei concerti.

L'altra curiosa industria diffusasi a Trieste per sfruttare questa preziosa materia prima fu quella dei manici da frusta di varie forme, prodotti a Trieste ed esportati poi in Germania ed in Italia. Il più noto fabbricante fu l'Officina Luppieri, che aveva sede in Piazza della Caserma (l'odierna Piazza Oberdan).

Un'altra industria legata al Bagolàro, minore ma molto curiosa, fu quella della produzione di rosari,  per i quali si utilizzava il nocciolo del frutto - una sorta di piccola bacca subsferica, bruno-nerastre a maturità, carnose e commestibili.
Fu questa l'origine del nome "albero dei rosari".

Karl Moser nel 1886 dedicò uno studio ai Bagolàri presenti nella dolina Ajša (in prossimità di Aurisina), nella zona prospiciente la Grotta del Pettirosso. Nella stessa zona è possibile individuare ancora oggi non solo i discendenti, ma anche alcuni degli esemplari originali studiati dal Moser quasi 130 anni fa (è un albero molto longevo, che può superare anche i 300 anni di età).

lunedì 8 dicembre 2014

Cristoglie

Accanto al fuoco, da sempre viene narrato che, in una magica notte dell'anno, la danza macabra affrescata sulle pareti della chiesetta della ss. Trinità di Cristoglie prende vita e vaga in processione per la valle, i canti si mischiano ai lamenti della bora.

 


Il tabor di Cristoglie (Hrastolje) sorge su una bassa elevazione rocciosa, in prossimità dell'omonimo villaggio.

Formato da una piccola ma alta cinta muraria, provvista di numerose feritoie, e di due torri rotonde, poste agli angoli opposti.
La porta, oggi chiusa da una cancellata, una volta era munita di un ponte levatoio.

Dato il fine di questa costruzione difensiva ( i tabor, ricordiamo, erano destinati a offrire una provvisoria protezione alla popolazione durante le scorrerie dei Turchi nel corso del XV e XVI sec.), l'unica costruzione all'interno delle mura è una piccola chiesa, celebre per i pregevoli affreschi di una "danza macabra", su cui si sono sviluppate affascinanti leggende...

La chiesa fu eretta tra il XII ed il XIII sec., ed originariamente non era fortificata: le mura furono erette probabilmente nel corso del XVI secolo.

L'affresco della danza macabra risale invece al 1490 ad opera del pittore Giovanni da Castua, che lo firmò sia in caratteri latini che glagolitici.
Celato nei secoli successivi da strati di malta e stucco, l'affresco fu casualmente riscoperto negli anni '50 e quindi riportato alla luce e restaurato.

 

martedì 18 novembre 2014

Un tragico incidente di caccia del 1925

La lapide oggi scomparsa
foto di Elio Polli

A Gropada, lungo il sentiero che conduce verso Monte dei Pini, poco distante dal paese si trovava fino a pochi anni fa una stele:

CADUTO QUI
IN LACCIO
TESO DA
CACCIATORI
DI FRODO IL MIO
ENRICO
A XXXV ANNI
IL VI MAGGIO
DEL MCDXXV
FINI' COLPITO DAL
PROPIO FUCILE 
-
ANGELO TREVISAN
PADRE INFELICISSIMO
POSE IN MEMORIA
DELL'AMATO FIGLIO
E MONITO AI REI


Sembrerebbe quindi che il 6 maggio 1925 Enrico Trevisan (forse un guardiacaccia, o un cacciatore)  rimase vittima di un laccio posto da cacciatori di frodo; ed in questo incidente perse la vita, a causa di un colpo partito dal suo stesso fucile.

Oggi di questa stele non v'è più traccia: corre voce che sia stata dapprima infranta, e che poi ne siano stati anche dispersi i frammenti.

Chissà quali storie dietro all'incidente di caccia così lapidariamente descritto: il dolore di un padre, anche a novanta anni di distanza, possiamo immaginarlo; più difficile immaginare lo stato d'animo di chi, dopo tanto tempo, non cede all'umana pietà e si accanisce contro una piccola  e semplice testimonianza di amore paterno. 

lunedì 3 novembre 2014

La leggenda della strega Tescia

Tescia era una strega, che scorrazzava per il Carso a cavallo di un cinghiale.
Aveva i capelli verdi, e parlava in maniera sibillina, lanciando messaggi difficili da interpretare ma che sicuramente celavano importanti segreti.
Era molto suscettibile, e chi la contrariava incontrava sempre la sua vendetta: o attraverso le sue arti magiche, oppure, più semplicemente, a suon di sberle... pare infatti che fosse molto manesca, ma anche molto abile a questo riguardo...

 

giovedì 28 agosto 2014

L'antico edificio (templare?) di Santa Croce

Al centro del villaggio di Santa Croce, adiacente all’abside della chiesa parrocchiale, si trova un singolare edificio a pianta quadrata, costruito in massicci conci di pietra ben squadrati.


Si tratta dell'antica scuola parrocchiale, e sembra risalire alla fine del XV sec.; o perlomeno così indica la data MCCCC89 incisa su un'architrave:

L'architrave.
Il significato della prima riga non è mai stato decifrato.
Nella seconda riga: "Hoc opus magister Georgyius fecit"
Infine, la terza riga, probabilmente incisa in epoca successiva alle prime due, con la data "MCCCC89"
All'altra estremità dell'architrave, è inciso un rosone a 16 raggi
Altre incisioni sono distribuite su vari punti della facciata:







Sull'altra facciata, un'edicola sacra circondata da un cordoncino decorativo e dal bassorilievo di un volto:



Prima di addentrarci nella storia di questa costruzione, soffermiamoci per un attimo di doverosa deplorazione: per come è stato nel corso del tempo rovinato da lavori di impiantistica effettuati senza il minimo rispetto del suo pregio e della sua storia. E ciò è avvenuto non nel corso di secoli, ma degli ultimi decenni, dopo che l'edificio è sopravvissuto per quattrocento anni, sostanzialmente integro dal punto di vista architettonico.

Questo strano edificio, con i suoi ancor più singolari bassorilievi dal sapore neanche tanto vagamente esoterico, hanno fatto favoleggiare a proposito di una presenza dei Cavalieri Templari a Santa Croce, e precisamente di una "mansiones" o "hospitalia", una sorta di "punto di sosta" per i pellegrini che, in  gran numero ed a distanze regolari, i Cavalieri del Tempio allestirono e curarono lungo le principali vie del pellegrinaggio verso la Terrasanta.
Infatti ai simboli zoomorfi, è associata una conchiglia di S. Giacomo e un bordone, inequivocabili simboli di pellegrinaggio; ma anche l'immagine del cavallo, ancorché rovinata, ci rimanda alla simbologia templare.

L'ipotesi che sia stato costruito dai Templari tuttavia, per quanto suggestiva ed affascinante, non regge. L'ordine dei Cavalieri Templari fu infatti sciolto, su ordine del Re Filippo IV il Bello, il 13 settembre 1307: quindi, ben 182 anni prima della data "MCCCC89" incisa sull'architrave.

Quindi, i Cavalieri Templari non c'entrano?
Non proprio; anzi, escono dalla porta per rientrare dalla finestra.
Studiamo un attimo l'edificio: se osserviamo attentamente la tessitura del muro, riscontriamo delle macroscopiche incongruenze.


Ad esempio, una fila di conci ben squadrati e regolarissimi, si ritrova ad un certo punto disallineata, per adattarsi ad una fila sottostante di conci meno regolari.
Uno dei bassorilievi è visibilmente solo un frammento di un'immagine più grande:



Ed in genere, tutta la tecnica costruttiva dell'edificio (tutto sommato, abbastanza approssimativa) stride con la qualità dei conci, e la cura con cui sono stati squadrati. Ci ritroviamo insomma evidentemente di fronte ad un edificio costruito recuperando conci provenienti dalla demolizione di un altro edificio, più antico. (1)
Ed i bassorilievi, quindi, provenivano da quest'altro edificio, nel quale presumibilmente erano inquadrati con un senso più armonico e plausibile.

Quale poteva essere l'edificio originario?
Ed è qui che tornano in gioco i Cavalieri Templari: infatti a Grignano (proprio sottostante a Santa Croce, e da questa distante poche centinaia di metri) si trovavano la chiesa di Santa Maria e il Convento della Beata Vergine di Grignano; e la presenza dell'Ordine del Tempio a Grignano è quasi certa, avvalorata da atti del processo ma anche da documenti - oggi perduti, ma ancora nell'800 conservati negli archivi del Convento.
Nel 1338 il Convento apparteneva sicuramente all’ordine dei Benedettini, e dopo il 1349 fu fondata la Confraternita di Santa Maria di Grignano, collegata e mantenuta dalla Chiesa dei SS. Martiri di Trieste e da alcune ricche famiglie di Prosecco e Santa Croce.
Sappiamo inoltre che il convento fu oggetto di un'incursione turca nel 1471 e che, in seguito anche ad alcune pestilenze, il convento decadde ed i Benedettini progressivamente scomparvero, fino a che - nel XVI sec. - il convento di Grignano passò ai Minori di San Francesco.
Sappiamo inoltre che il villaggio di Santa Croce tra il 1466 e il 1471, in seguito a donazioni e vendite, passò dalla famiglia Pellegrini alle monache benedettine del monastero di S. Cipriano in Trieste.
Quindi, dopo il 1471 abbiamo a Santa croce una nuova proprietà (le monache benedettine di S. Cipriano) e, a poche centinaia di metri di distanza, il convento benedettino di Grignano, in decadenza e probabilmente danneggiato, o forse anche parzialmente distrutto, in seguito alle incursioni turchesche.
Nulla di più facile che le macerie di qualche costruzione di Grignano, danneggiata o comunque inutilizzata, siano state reimpiegate a Santa Croce per la costruzione di un nuovo edificio: si trattava, in definitiva, di proprietà entrambe del medesimo ordine.
Gli ottimi materiali quindi della antica scuola di Santa Croce proverrebbero da un più antico edificio di Grignano, costruito certamente con maggior sapienza: probabilmente un edificio di origine templare. Le nuove maestranze però non avevano l'abilità di quelle che, qualche secolo prima, avevano costruito l'edificio originale, squadrandone con sapienza i massicci conci: si limitarono a riutilizzare i materiali alla meno peggio, senza cimentarsi in lavori di squadratura ma adattando grossolanamente i materiali a disposizione, ed utilizzando pietre più piccole per allinearle, incastrarle e riempire le inevitabili cavità (una tecnica propria dell'architettura tradizionale carsica)

Forse l'edificio originale era proprio un "hospitalia", ovvero a ricovero per i pellegrini e viandanti; e forse anche l'edificio di Santa Croce, originariamente, era anch'esso destinato a "hospitalia": il flusso di pellegrini verso la Terrasanta continuò infatti a lungo, ben dopo la fine dell'Ordine Templare, e nella loro funzione di assistenza ai pellegrini i cavalieri del Tempio furono spesso sostituiti dai frati dell'ordine Benedettino.
Quindi, in definitiva, ci si ritroverebbe di fronte al trasferimento dell'Hospitalia da Grignano a Santa Croce, realizzato demolendo il vecchio edificio ed utilizzandone i materiali per la costruzione del nuovo.

Questo spiegherebbe anche il reimpiego di decorazioni legate simbolicamente al pellegrinaggio, oltre ad altre che, recuperate dall'edificio originale, probabilmente non furono neppure interpretate correttamente, e inserite a mero scopo decorativo nella nuova costruzione. Tuttavia queste decorazioni oggi, avulse dal loro contesto originale, e probabilmente monche e incomplete, hanno sicuramente perso il loro significato esoterico, rendendone quindi l'interpretazione molto difficile, se non del tutto impossibile.

Di ipotesi fino a qui ne abbiamo fatte tante, ma tutte verosimili e - almeno in parte - suffragate da documenti storici.
Nell'interpretazione dei simboli dobbiamo abbandonare il campo delle ipotesi, per affidarci a quello delle pure illazioni; e si tratta di discorsi che ci porterebbero lontano, ed a percorrere sentieri impervi.
Si tratta però di suggestioni affascinanti, alle quali è difficile resistere: e, peraltro, l'interpretazione dei simboli richiede che si lasci vibrare corde dimenticate del nostro animo, abbandonando i canoni della stretta razionalità per affidarsi ad un più generico ed universale "sentire".

Lasciatemi quindi qui proporre un semplice accostamento, tra uno dei simboli della Scuola di Santa Croce (forse non a caso monco e danneggiato) ed il più classico dei simboli templari:




Potrebbe questo frammento di bassorilievo essere una parte del famoso sigillo dei due cavalieri che dividono il medesimo cavallo (a simboleggiare sia l'ideale di povertà dell'Ordine, sia la dualità del ruolo di monaci e guerrieri dei Templari).
Ipotesi affascinante, suggestiva, ma sostanzialmente impossibile da provare...

Per chi si volesse cimentare in ricerche o anche semplici speculazioni, resta anche il mistero del significato dell'incisione della prima riga dell'architrave, mai interpretato:



domenica 10 agosto 2014

I peri della Val Rosandra

Nei dintorni di Bagnoli, in qualche giardino, ci sarà sicuramente anche qualche albero di pere. Ma non sono questi i "peri" della Val Rosandra.
Per identificare i "peri" bisogna addentrarsi nella storia degli alpinisti triestini formatisi nelle palestre di roccia della Val Rosandra, tradizionalmente divisi tra le due società "concorrenti": la "Società Alpina delle Giulie" e la "XXX Ottobre".
Forse partendo dallo spunto di qualche rovinosa caduta di un rocciatore dell'Alpina dalla parete della via Mezzeni, tra i soci della XXX Ottobre si diffuse l'uso di soprannominare "peri" gli alpinisti della società avversaria (rifacendosi al detto triestino "El xe cascà come un pero").
Il dileggio trovò eco anche in una canzoncina (sull'aria della marcetta "Figli di nessuno"):
Peri dell'Alpina, che voi se,
impareve a rampigar
zò per la Mazzeni
no xe el caso de cascar
Questo uso pare sopravvivere ancora oggi, ma in maniera confusa, e quindi è giusto fare luce e consegnarlo alla storia dell'alpinismo triestino...

Pare che, per contraccambiare, i soci dell'Alpina cominciarono a soprannominare "pomi" quelli della XXX Ottobre... ma appare solo una sterile ripicca, priva della giustificazione idiomatica che ha invece il termine "pero", e mancando anche di un qualche episodio preciso a giustificarlo. Quindi, decisamente inelegante...

Su una roccia poco distante dalla chiesetta di Santa Maria di Siaris, si trova una rozza graffito, una sorta di ideogramma mai identificato con precisione.
Qualcuno ipotizzò essere un misterioso simbolo legato ai Cavalieri Templari, trovandosi lungo il sentiero percorso dai pellegrini diretti a Santa Maria in Siaris. Altri ipotizzano invece essere un "pero" o un "pomo" stilizzati, e di esser stato quindi inciso in tempi molto recenti, richiamandosi appunto ai "simpatici" soprannomi appioppatisi a vicenda dai membri delle due associazioni.

lunedì 4 agosto 2014

Concorso fotografico: Flora e paesaggi naturali del Litorale Austriaco

Allium victorialis L. (Aglio serpentino, Aglio vittoriale)
foto A. Sgambati


Il Club Touristi Triestini organizza un concorso fotografico, con tema "Flora e paesaggi naturali del Litorale Austriaco e dei territori contermini.".

Il "Litorale Austriaco" comprende storicamente il territorio da Bovec/Plezzo a Lussin, da Cervignano a Baška, comprendendo quindi tutto il territorio carsico; ai fini del concorso, è esteso anche alle regioni e territori di Trentino, Tirolo, Veneto, Friuli, Carinzia, Stiria, Slovenia e Croazia.

Il concorso ha il fine dichiarato di raccogliere foto digitali della flora autoctona spontanea e rinselvatichita, da utilizzarsi anche a fini di documentazione e pubblicazione scientifica.

E' gradito che gli autori identifichino e classifichino autonomamente i soggetti ripresi; tuttavia, nel caso di immagini delle quali non si sia in grado di identificare la specie della pianta soggetto, ciò verrà effettuato dalla giuria, che si avvale della preziosa collaborazione del prof. Poldini

La scadenza per l'invio delle immagini è il 14 novembre 2014.

Il bando del concorso (la cui partecipazione è gratuita) è disponibile sul sito del Club Touristi Triestini.


mercoledì 9 luglio 2014

La Caverna della Banda

In prossimità di Medeazza, a pochi metri dalla pista di servizio che fiancheggia il tracciato dell'oleodotto transalpino verso Pietrarossa, si trova una piccola cavità, dal suggestivo nome "Caverna della Banda" (6728/6280 VG).



E' una caverna piccola e di facile esplorazione, che si sviluppa per una quindicina di metri e di soli 4 metri di profondità; e come tante altre caverne della zona, nel corso della Prima Guerra Mondiale fu adattata a scopi militari, allargandone l'ingresso e costruendo all'interno un ripiano sostenuto da un muretto.

E' stata chiamata Caverna della Banda, perché si  crede che qui  durante la Prima Guerra Mondiale abbia trovato rifugio e successivamente la morte una intera banda reggimentale.
La cavità venne nuovamente alla luce durante gli scavi per l'oleodotto nel 1968. Secondo voci non verificate, vi furono rinvenuti i resti dei componenti la banda, con tanto di strumenti musicali; si ritenne l'ingresso fosse stato ostruito da un'esplosione che li aveva intrappolati, causandone la morte.
Resti e cimeli andarono irrispettosamente dispersi, lasciando quindi attorno a questo triste fatto un alone di leggenda.

Chissà se adesso, in occasione della ricorrenza del centenario della Prima Guerra Mondiale, ci sarà modo di recuperare inedite e dimenticate testimonianze, destinate a far luce su questo e su altri mille piccoli ma tragici fatti accaduti allora, ma destinati a non entrane nella "Storia" con la "S" maiuscola?
 

sabato 5 luglio 2014

La strage della Brigata Valtellina

I treni diretti a Trieste, una volta abbandonata la stazione di Monfalcone, affrontano subito due brevi gallerie. Indifferente che si tratti di un sonnolento locale o di un prestigioso Frecciabianca: le gallerie sono corte, ed il passeggero si accorgerà a malapena di attraversarle.
Eppure la seconda galleria meriterebbe la nostra attenzione, perché è stata teatro di una delle maggiori tragedie della prima guerra mondiale: seconda - solo per i numeri, non certo per l'orrore - a quelle dei gas...
Tragedia che è stata però ingiustamente dimenticata: perché per le sue dimensioni, e per i modi con cui si è svolta, meriterebbe un posto importante nella nostra memoria: monito non solo della vacuità della guerra, ma soprattutto della stupidità umana.

Dobbiamo andare al settembre 1917: si è conclusa da pochi giorni l'ennesima "Battaglia dell'Isonzo"... l'undicesima, per la precisione, della sfilza di battaglie che nell'arco di due anni, a prezzo di alcune centinaia di migliaia di caduti, aveva fatto guadagnare agli Italiani una manciata di chilometri, tanto che il fronte, partito due anni prima da Grado, era adesso arrivato appena ai contrafforti dell'Hermada.

E la battaglia si riaccende sul fronte nel settore di Flondar, con gli austro-ungarici che scatenano nella notte tra il 3 e 4 settembre un infernale bombardamento d'artiglieria.
Il 65° Reggimento di fanteria della Brigata Valtellina ha appena occupato quelle posizioni, al termine di pochi giorni di riposo trascorsi a Vermegliano; durante il bombardamento gli uomini si proteggono in un rifugio sicuro ed invulnerabile: uno dei due tunnel ferroviari, ricordato nel diario del Reggimento come "galleria di Lokavac", che in precedenza gli austro-ungarici avevano sapientemente adattato.
Alle 4:50 del mattino cessa il fuoco pesante d'artiglieria, ma anziché scatenare subito l'attacco, l'artiglieria i.r. continua a bombardare le trincee delle prime linee; e quindi i soldati italiani se ne restano al sicuro nella galleria...
Alle 5:40 cessa il bombardamento, ed immediatamente le unità i.r. avanzano verso le linee italiane.
Un reparto austriaco arriva fino all'imbocco del tunnel e lancia delle bombe a mano.
Disgraziatamente - anzi, sciaguratamente - della casse di munizioni erano state depositate proprio in prossimità dell'ingresso: esplodono, e coinvolgono nell'esplosione dei serbatoi di lanciafiamme custoditi a fianco.
Nell'arco di pochissimo - forse meno di un minuto - si sviluppa un incendio furioso ed incontrollabile: il fumo invade tutto il tunnel, asfissiando gli occupanti, e solo pochissimi riescono a mettersi in salvo.
L'incendio prosegue per ben due giorni, consumando e calcinando tutto all'interno.

Quanti soldati italiani morirono in quel tunnel?
Difficile dirlo... la lapide che li commemora ricorda, pudicamente, che caddero "centinaia" di fanti assieme al loro comandante, il colonnello Giovanni Piovano.
In realtà, i diari ufficiali lamentano per il giorno 4 settembre la perdita di 2400 uomini, la maggior parte dei quali dobbiamo credere si trovasse all'interno del rifugio ferroviario...


La "nuova" lapide, a malapena leggibile

Come arrivarci

Basta una brevissima passeggiata a condurci alla galleria del Lokavac.
Dopo aver parcheggiato a San Giovanni di Duino, ci incamminiamo sulla SR55 in direzione del Vallone.

200 metri dopo il ponte sull'autostrada, un segnavie biancorosso ci indica l'inizio del sentiero 16 verso Medeazza/Medja Vas e Iamiano/Jamlje
Percorriamo un facile sterrato per poche centinaia di metri.
Un ambiente reso un po' spettrale da un vero e proprio
bosco di tralicci... tutti del medesimo color ruggine 


Sulla sinistra, ad un certo punto possiamo osservare un canalone
con alcuni ricoveri: resti di fortificazioni austro-ungariche.


Procediamo ancora lungo lo sterrato, che curva a destra e scavalca subito dopo la ferrovia:
siamo proprio sopra all'imbocco della "galleria Lokavac".


Abbandonando qui lo sterrato, ed inoltrandoci a destra nella vegetazione, dopo pochi passi si può intravedere un cippo, posto su un grande basamento in calcestruzzo.

Il basamento in realtà sono i resti di un bunker, collegato con un breve pozzo alla sottostante galleria. Con la dovuta prudenza, il bunker si può visitare... ma è fortemente sconsigliabile inoltrarsi nel cunicolo.








Poco distante è eretta un'altra stele commemorativa, precedente a questa,
e resa ormai completamente illeggibile dal tempo.
Un aspetto curioso è che questa stele segna uno dei caposaldi
 del confine del Territorio Libero di Trieste.





Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori

sabato 31 maggio 2014

Non toccate i caprioli!

cucciolo di capriolo di 5 giorni,
raccolto ed accudito dall'ENPA di Trieste

Questo è il periodo in cui in Carso non è infrequente trovare cuccioli di capriolo, apparentemente abbandonati in mezzo ad un prato, nascosti nell'erba alta... e mai abbastanza forte sarà ripetuta l'avvertenza: NON TOCCATELI!!!!
per quanto ispirino tenerezza, per quanto sembrino abbandonati... per il loro bene, NON AVVICINATEVI e, soprattutto, NON TOCCATELI.

Riporto qui l'efficace appello dell'ENPA a questo proposito:

Rammentiamo di non toccare i cuccioli di capriolo in mezzo ad un prato o accucciati tra l'erba dei margini di qualche dolina. Non sono abbandonati e la tenerezza che ispirano non deve farci equivocare sul loro benessere. 
Le madri allattano i cuccioli al tramonto, nella notte e all'alba. Dopo la poppata dell'alba si avviano, di solito, in area scoperta ed erbosa dove il piccolo, nascosto, attenderà dormicchiando ed immobile il tramonto, quando la madre verrà a riprenderselo e lo porterà nel bosco dove, dopo l'allattamento, riposeranno l'uno accanto all'altra sino all'alba. Poi ricomincia il percorso verso le aree erbose e scoperte. 
E’, quindi, ben chiara la inutilità di chi trova su di un prato un cucciolo di capriolo nell’affannarsi alla ricerca di individuare la madre. Peggio ancora presumere l’abbandono, raccogliere il cucciolo, tentare una alimentazione fantasiosa o portarlo lontano. Il rischio è che la madre non lo ritrovi più o non lo riconosca come suo dopo le incaute manipolazioni.
Perché i piccoli stanno di giorno nell’erba alta nei prati o in zone aperte? 
Perché è il luogo più sicuro e lontano dai predatori, in particolare dalla volpe che quando si sposta durante le prime ore del giorno non esce mai dai margini umbratili del bosco.
La natura sa quello che fa e gli uomini, se vogliono proteggere gli animali selvatici, devono ben conoscerne le abitudini ed i comportamenti.

Nel dubbio contattare la Polizia Ambientale della Provincia di Trieste o l'ENPA.

Nota: la Polizia Ambientale può essere contattata direttamente dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 13.00, il lunedì ed il giovedì anche dalle 15.00 alle 17.00 al tel. 0403798456.
Negli altri orari, può essere contattata attraverso i servizi 112 e 113.


venerdì 16 maggio 2014

Il monumento perduto agli "Eroi dell'Isonzo Armee"



Questa foto è stata pubblicata su "La Grande Guerra in casa", sorta di catalogo fotografico dell'omonima mostra allestita nel 2012 dall'Associazione Hermada - Soldati e Civili.

Si tratta di un monumento eretto nel corso della Prima Guerra Mondiale nei pressi di Aurisina, dedicato agli "eroi dell'Armata dell'Isonzo" ("der Helden der Jsonzo-Armee"), presumibilmente distrutto dopo la "redenzione" di queste terre, e del quale pare essersi persa ogni memoria, anche tra i vecchi del paese.

Sorge allora la curiosità: dove si trovava esattamente? Ne esiste ancora qualche traccia, magari solo i ruderi del basamento?

Cominciamo questa ricerca che - avverto - non so dove ci condurrà. Prendetelo come un mio "ragionamento ad alta voce", al quale potete partecipare con le vostre osservazioni.

Esaminiamo la foto.

All'orizzonte, è evidente il viadotto ferroviario di Aurisina, visibile solo in parte (precisamente, dieci archi).

All'epoca il terreno era in gran parte brullo, alberi non ce n'erano, e quindi il viadotto era molto più visibile di quanto non sia oggi; per riuscire a vederlo, dobbiamo salire in alto, sopra agli alberi.
Ecco una foto recente (2009) del viadotto, scattata dalla vedetta Liburnia:



E cominciamo a porci le domande:

Il monumento si trovava a nord o a sud del viadotto?
Nella foto dalla vedetta Liburnia il viadotto è visto da sud; è praticamente simmetrico, quindi potrebbe sorgere lecito il dubbio che il monumento potesse trovarsi anche a nord del viadotto...
Ma non è così. Nella foto del monumento, all'orizzonte sulla sinistra si intravedono delle case.
Se osserviamo la mappa della zona:



 possiamo notare che, guardandolo da sud, effettivamente sulla sinistra ci sono delle costruzioni; viceversa, guardandolo da nord non c'è nessuna costruzione.
Quindi, la foto del monumento è scattata certamente a sud del viadotto.

Lo spigolo a destra del basamento del monumento coincide con il pilastro del decimo arco (riportato in mappa come "secondo pilastro maggiore" in quanto, se ci fate caso, sul viadotto ogni quattro pilastri ce n'è uno di dimensioni maggiori)

Il viadotto in foto non viene visto perpendicolarmente, ma dalle ombre degli archi si desume che viene visto con una certa inclinazione (difficile dire quanto... forse una decina di gradi).
Comunque, prudenzialmente, tracciamo una linea perpendicolare al viadotto (in rosso sulla mappa): il monumento si trovava a sinistra (ovvero a ovest) di questa linea.

Nella foto non si vede il campanile della Chiesa di Aurisina, quindi la stessa deve essere nascosta dietro al monumento.
Se tracciamo una linea dal decimo arco al campanile (in blu), abbiamo un'ulteriore elemento: il monumento si trovava a destra (est) di questa linea.

A questo punto abbiamo identificato una "fetta" di terreno abbastanza stretta... ragioniamo sulle quote:
  • in prossimità del viadotto, il piano di campagna ha quota circa 137 m; il viadotto invece ha quota 153 m
  • il punto di vista della fotografia sembra essere ad una quota più o meno corrispondente a quella del viadotto, e quindi attorno ai 153 m 
  • il piano della strada provinciale tra Aurisina e Santa Croce ha quota variabile tra 151 m (all'altezza dell'incrocio con San Pelagio) e 175 m (all'altezza dell'edificio della ex-scuola della Lega Nazionale)
  • il piano di campagna della vedetta Liburnia è di 179 m
Seleziono tra le due righe (rossa e blu) l'area che ha una quota "compatibile", ed il risultato è l'area segnata in grigio, all'interno della quale (SE i ragionamenti fatti sopra sono corretti), avrebbe dovuto trovarsi il monumento.
E' un'area oggi solo in parte edificata, e che comprende anche le primissime pendici del Monte Babica lungo la provinciale (senza allontanarsene troppo, perché dopo si sale troppo di quota). 

A questo proposito, c'è da fare una considerazione: 
- monumenti simili a questo venivano solitamente eretti nei cimiteri di guerra. 
- nella zona accanto a quella contrassegnata, pare che fossero stati allestiti i baraccamenti di un ospedale da campo
- e quasi sempre un ospedale da campo aveva in prossimità un cimitero di guerra

Il che renderebbe verosimile che il monumento sia stato eretto per un cimitero di guerra, e smantellato poi, nelle operazioni di "riordino" dei cimiteri di guerra (ad esempio, in prossimità di San Pelagio c'erano due altri cimiteri di guerra, le cui salme furono poi traslate in altri cimiteri).

SE le ipotesi che ho fatto sopra sono corrette (...e non è detto che lo siano), l'area così delimitata è circoscritta con sufficiente precisione (però, ad esempio, la quota del punto di presa della foto potrebbe anche essere più elevata, e sembrare equivalente a quella del viadotto solo per una questione di ottica).

Come proseguire le indagini?

Ovviamente "sul campo", battendo palmo a palmo il terreno di quell'area (sul quale nel frattempo non siano state costruiti edifici o tralicci...), e sperando di trovare ancora le tracce di quel basamento.
Se qualcuno decidesse di dedicare qualche ora alla raccolta di asparagi selvatici in quella zona, che ne approfitti per dare un'occhiata alle pietre che incontra...
    
Vi è poi il dettaglio delle case che si intravedono all'orizzonte, a sinistra: la foto non è sufficientemente nitida da poterle identificare con certezza, ma varrebbe la pena di fare un confronto con altre foto d'epoca per poter ravvisare delle somiglianze.


Ed infine, paziente lavoro d'archivio...

Se avete qualche osservazione, contributo, segnalazione di dati o fotografie, vi invito caldamente a portare il vostro contributo nei commenti!

lunedì 21 aprile 2014

Sull'origine del toponimo "Canovella de' Zoppoli"

Nel post su Canovella de' Zoppoli avevo scritto che il toponimo "Canovella" non era spiegato... ed effettivamente, un po' come tutti i toponimi di questa zona, la relativa spiegazione etimologica va sempre presa con le pinze, indipendentemente dall'autorevolezza di chi la propone.
Ogni toponimo si presta infatti a diverse ipotesi e speculazioni etimologiche, facendolo derivare dai più svariati termini in differenti lingue... e quando accade, come in Carso, che a vario titolo siano state usate lingue diverse (italiano, sloveno, tedesco... restando ai tempi più recenti. Ma, andando indietro nel tempo, anche ladino, veneto, latino, volgare, ed altre lingue e dialetti di ceppo italico, germanico e slavo, nonché, ancor prima, venetico, illirico, ed altre lingue prelatine) allora ogni ipotesi toponimica corre il rischio di sfociare nell'illazione. E spesso, alcune spiegazioni che vengono date per certe, derivano la loro autorevolezza solo dalla granitica certezza con cui sono state affermate. Invece, sono rarissimi i documenti che ci permettano di dare ragionevolmente per certa qualsiasi spiegazione toponomastica, e quindi nel formularle il condizionale dovrebbe essere sempre d'obbligo.

Questa doverosa premessa per spiegare che un'ipotesi sull'origine del nome "Canovella" esiste, anche se non attendibilissima.

Il suffisso "de' Zoppoli" è recentissimo, risalendo alla prima metà del XX secolo, e giustamente recuperato per dare memoria alla storica imbarcazione monossile che, tradizionalmente, veniva usata in questo microscopico porticciolo.

Il nome "Canovella" invece è molto più antico, ed in particolare viene più volte citato in alcune carte topografiche del XVI e XVII secolo. (1)
Consultando queste carte, si scopre che "Canovella" non indicava solo la località oggi nota con tale nome, ma più località diverse nella stessa zona, o addirittura tutta la zona costiera tra l'attuale Canovella d' Zoppoli e Sistiana.
E compare in diverse forme: Canouela, Canouello de Sotto, Canouello Grande, Canouello Picciol, Conouella, Conouello Grande, Conouello Piccolo; ma anche "Contrata de Conouella" e "Territorio de Canouello".
Tito Ubaldini (1) fa derivare Canovella da canova o canava, "cella vinaria"  (2); e questo perché questa zona della costa era all'epoca coltivata a vigne, su appositi pastini, e quindi la zona si sarebbe ben meritata l'appellativo di "cantinetta".
Peraltro, la coltivazione della vite era qui diffusa fino a pochi decenni fa, ed oggi sopravvive solo in pochi tratti, essendo per il resto i terreni rimasti abbandonati ed incolti; anche i pastini sono ancora esistenti, sebbene non ne venga più curata la manutenzione, e ciò provoca non pochi problemi di dissesto idrogeologico.
E' plausibile questa spiegazione etimologica? Sicuramente si.
E' sicura? Certamente no, poiché non esistono document in merito che ce lo dimostrino esplicitamente.
Prendiamola quindi come una spiegazione plausibile, probabile e ragionevole: ma non dimentichiamo di accettarla solo con spirito critico, e sempre pronti a sentire doverosamente anche qualsiasi altra spiegazione.

Fonti:

(1) Tito Ubaldini - Il "Territorium Tergestinum" in cinque carte topografiche del XVI e XVII secolo - Archeografo Triestino, serie IV, vol. XLVII, Trieste, 1987
(2) Du Cange - "Glossarium mediae et infimae latinitatis" - Parisiis, 1842

domenica 20 aprile 2014

La chiesa di Santa Maria di Siaris


Alle pendici del Monte Carso, su un versante della Val Rosandra, sottostante al Cippo Comici, sorge un'antica chiesetta: Santa Maria di Siaris.
Fu edificata nel XIII sec., probabilmente sulle rovine di un'antica torre, e secondo la leggenda fu costruita per volere di Carlo Magno, sepolto in una grotta nei dintorni.
Originariamente doveva comprendere anche un piccolo monastero (i "monaci di Siaris", detti anche - comprensibilmente - "monaci sulle rocce", compaiono più volte in documenti dei secoli successivi).
Nel corso del tempo la chiesetta fu sicuramente più volte restaurata o anche completamente riedificata; il restauro più importante probabilmente è quello del 1647 (l'anno è riportato sull'architrave). Ma successivamente, fino alla fine dell'800, finì in abbandono, e la struttura attuale è principalmente frutto di vari lavori compiuti nel corso del XX secolo (ad esempio, nell'immagine più antica disponibile, risalente al 1698, la chiesa sembra esser dotata di un campanile, oggi scomparso)

Nel 1300 era prevista come meta di pellegrinaggio per i bestemmiatori, che dovevano compiere per penitenza il cammino di 12 chilometri a piedi nudi (chiunque percorra oggi gli impervi sentieri per raggiungerla si renderà conto di quanto questa penitenza fosse pesante...)

da "Historia antica, e moderna, sacra e profana, della città di Trieste"
di Ireneo della Croce;
la più antica rappresentazione della Chiesa di Santa Maria di Siaris (1698)

Sul nome "Siaris":

Non esistono etimologie convincenti per il toponimo "Siaris": secondo Cuscito deriva dalla voce ladina "serra" (sbarramento, monte, crinale), ma si tratta appunto di un'ipotesi poco convincente.
Interessante il fatto che il nome "Siaris" sia rimasto pressoché immutato nel corso dei secoli: nel 1330 viene citato più volte nella forma "Seris", che nel corso del '400 muta in "Siaris", forma definitiva conservata fino ad oggi.



Oggi la chiesa è aperta e visitabile solo in occasione delle (rare) messe che vi vengono celebrate in particolari occasioni; anche la sola visita esterna la rende però una degnissima meta per una bella escursione in Val Rosandra.

Riferimenti:

Ireneo della Croce: "Historia antica, e moderna, sacra e profana, della città di Trieste" - 1698
Sito Triestestoria

lunedì 7 aprile 2014

la postazione del mortaio Skoda da 38cm alle pendici del Monte Hermada

Quasi due anni fa ho scritto un post monografico sul Mortaio Skoda da 38cm, promettendo vagamente una "seconda puntata".
Se ho atteso tanto, è perché speravo che durante l'inverno, con la vegetazione più rada, sarebbe stato possibile scattare foto migliori di una mia piccola scoperta... ma purtroppo ciò non è accaduto.

Procediamo con ordine: su tutto il monte Hermada si trovano i resti di moltissime fortificazioni e postazioni di artiglieria Austro-Ungarica. Resti di trincee, di bunker, di osservatori, di impianti militari si contano a centinaia, ed è impossibile camminare senza letteralmente inciampare in qualche testimonianza della prima guerra mondiale.
La "fortezza Hermada" fu lo scoglio su cui si infranse l'esercito italiano, ormai in vista di Trieste.
E, in termini di artiglieria, soprattutto nel 1917 fu munitissimo, con uno spiegamento di batterie di grosso calibro imponente: senz'altro una delle maggiori - se non la maggiore in assoluto - di tutta la prima guerra mondiale.

mappa con lo spiegamento delle postazioni di artiglieria
nella zona del Monte Hermada nel 1917
I simboli non rappresentano singole bocche da fuoco, ma batterie:
ciascuna batteria composta da più bocche da fuoco
(il numero di bocche da fuoco che componeva una batteria dipendeva  dal calibro)
tratto da: "L'Ultima Guerra dell'Austria-Ungheria"

Alle pendici del Monte Hermada, ad ovest di Ceroglie, si trovano dei resti di fortificazioni abbastanza singolari, che fino adesso erano vagamente riconosciute come "postazioni di artiglieria di grosso calibro" (1)
Singolari perché sono costituite da un grosso muro paraschegge semicircolare, che protegge un ampio spiazzo interno, all'interno del quale si trova uno scavo quadrangolare molto regolare e curato.
Altri muri paraschegge, costruiti con grosse pietre legate con calcestruzzo, si trovano nei dintorni.
Il complesso non acquista una sua logica, fino a che non lo si riconosca per quello che realmente è: una postazione completa per un mortaio Skoda da 38 cm e per tutti i relativi mezzi e carriaggi di allestimento.

particolare del carro porta-munizioni a servizio del mortaio Skoda da 38
Ben evidente il carrello della dacauville, usata per il trasporto dei proietti




Tutta l'area è imboschita, e quindi è impossibile scattare delle foto decenti che rendano l'idea delle costruzioni; tuttavia, in un sopralluogo si possono facilmente identificare molte caratteristiche strutture:

  • la postazione vera e propria è costruita al margine di una dolina, efficacemente protetta da imponenti muri di calcestruzzo e pietrame
  • in mezzo alla postazione, è evidentissimo uno scavo quadrangolare, con pareti consolidate in pietra, nel quale veniva posto il cassone che costituiva il basamento vero e proprio del mortaio
  • a fianco della postazione, due piccoli bunker scoperti, con ingresso a meandro; il loro scopo non era tanto offrire protezione in caso di bombardamento, quando servire da rifugio ai serventi al momento dello sparo, affinché non fossero assordati dallo stesso. Probabilmente, erano sommariamente coperti con lamiera o con altra copertura, oggi scomparsa
  • poco distante, un'altra massiccia costruzione, a "U" allungata, parte in pietrame a secco e parte in calcestruzzo.
    Si tratta del riparo per il carro porta-munizioni; è ben evidente anche il passaggio (realizzato in calcestruzzo) per la decauville di servizio (vedi foto sopra)
    Sono visibili gli scassi per una travatura (oggi scomparsa), che sosteneva una qualche copertura di protezione.
  • tra il riparo del carro porta-munizioni e la postazione vera e propria, è visibilissima la massicciata sulla quale era stata posta la decauville di servizio, che conduce in prossimità della piazzola di tiro
  • nella medesima dolina, poco distante, si intravede l'accesso di un bunker, ormai interrato, ma che sarebbe interessante disostruire.
  • nei dintorni si trovano diversi altri massicci muri paraschegge, edificati sempre in pietrame a secco e talvolta consolidati da calcestruzzo: si trattava di protezioni per gli altri veicoli a servizio del mortaio.
L'aspetto più sorprendente di questa postazione è il suo eccezionale stato di conservazione: a parte pochi cedimenti dei muri di pietrame, risulta praticamente intatta; e verrebbe da pensare che - in teoria - con pochi giorni di lavoro potrebbe tornare ad ospitare il possente mortaio da 38 per cui era stata realizzata.

Da considerare anche il fatto che con tutta probabilità di tratta dell'unica postazione del genere sopravvissuta oggi in tutta Europa.

rappresentazione del mortaio Skoda da 380 in batteria.
E' ben rappresentato il cassone quadrangolare che ne costituiva
il basamento, e che veniva completamente interrato.
Proprio la caratteristica presenza dello scavo per questo basamento
indica inequivocabilmente che la postazione sull'Hermada ha ospitato questo pezzo 

Dove si trova esattamente?

Raggiungerla è molto semplice: basta deviare di pochi metri dalla carrabile che, da Ceroglie, conduce sulla vetta dell'Hermada (la stessa che, durante la "guerra fredda", era percorsa quotidianamente dalle "Campagnole" dell'Esercito Italiano, per raggiungere una baracca/osservatorio)


Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori

Alcune proposte

La più ovvia è che il luogo, adesso che si è compreso cosa rappresenta, diventa implicitamente uno dei più interessanti da visitare sul Monte Hermada (ma forse anche il più interessante in assoluto). Merita quindi di essere una "meta fissa" di qualsiasi escursione storica nella zona, e di essere incluso in qualsiasi circuito di visite che voglia esser realizzato.
Ad esempio, una "meta fissa" attuale è costituita dai resti poco distanti di una postazione di un mortaio Skoda da 305, il "fratellino minore" di quello da 380.
Di questa postazione del mortaio da 305, quasi tutto è lasciato alla fantasia ed all'intuito del visitatore, perché ben poco è rimasto di effettivamente visibile, e quel poco è ben occultato da una rigogliosa vegetazione.
Non vi sono quindi confronti (né in termini di "leggibilità" delle strutture, né di interesse storico) con questa postazione del mortaio da 380.

Ma meriterebbe di esser adeguatamente valorizzato, tutelato e conservato. Si tratta probabilmente dell'unico manufatto del genere oggi esistente, e quindi anche il suo valore storico, di "archeologia di industria militare" è inestimabile.
E' sopravvissuto in maniera sorprendente a quasi un secolo di abbandono ed incuria, ma qualche sia pur minimo lavoretto di consolidamento e restauro sarebbe urgente ed importante.
La più urgente è quella di una radicale pulizia dalla vegetazione infestante: non tanto perché la vegetazione ne pregiudica molto la visibilità, ma anche perché ne mina la struttura (alcuni cedimenti parziali sono già evidenti).
La pulizia permetterebbe poi di eseguire un rilievo preciso della zona, importante sia al fine di pianificare ogni successiva attività di restauro, ma anche a fini storici e documentaristici.
Sarebbero poi auspicabili altri lavori di consolidamento, tesi a mettere in sicurezza e conservare le strutture.  
Nel mondo dei sogni oggi irrealizzabili, l'ideale sarebbe porvi una replica del mortaio Skoda da 380 e dei relativi mezzi di servizio, rendendolo uno scenario unico per rievocazioni e per il "museo all'aperto" dell'Hermada.
Più realisticamente, in seguito alla pulizia ed al rilievo preciso della zona, sarebbe interessante la realizzazione di un diorama in scala (come base di partenza, esiste anche un kit in resina)

Di seguito, un po' di foto delle condizioni attuali della struttura; ma consiglio di recarcisi di persona perché, nonostante la vegetazione, la struttura è interessantissima e ben meritevole di una visita.

il bunker con l'ingresso a meandro, visto dall'alto
l'ingresso a meandro
la piazzola di tiro
sulla destra, il massiccio muro paraschegge
i resti dello scavo quadrangolare che ospitava il basamento del mortaio

il muro paraschegge che circonda la piazzola
come dappertutto sull'Hermada, anche qui è facile rinvenire grosse schegge,
a testimonianza dei massicci bombardamenti subiti dalla zona
la postazione, anche se imponente, si riesce a malapena ad intuire in mezzo alla vegetazione

l'ingresso del bunker interrato, poco distante
protezione del carro porta-munizioni: questo è il passaggio per la decauville di servizio

la struttura di protezione del carro porta-munizioni vista dall'interno
dettaglio del passaggio della dacauville
altre strutture paraschegge

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(1) così è descritta nella mappa allegata a "Ermada", di Dario Marini De Canedolo, Gruppo Speleologico Flondar, 2007