Lunedì 11 gennaio 2010, alle 18.00, presso la sede del Cai XXX Ottobre (via Battisti 22, 3° piano, Trieste) si svolgerà una conferenza con proiezione di foto digitali per illustrare la storia dell'ex-ferrovia Trieste-Erpelle, sul cui tracciato è oggi stata ricavata la nuova pista ciclopedonale della val Rosandra.
La conferenza illustrerà, con l'ausilio di esperti, i tanti aspetti e temi che si potranno incontrare durante una successiva gita che che si svolgerà la domenica 17 gennaio: "Traversata da San Giacomo a Cosina, seguendo la pista ciclopedonale".
per maggiori informazioni: blog escursioni nei dintorni di Trieste
raccolta di curiosità, segreti e misteri (piccoli e grandi), scoperti girovagando a caso per il Carso triestino
giovedì 31 dicembre 2009
lunedì 28 dicembre 2009
la vedetta Scipio Slataper
La vedetta Scipio Slataper si trova a Santa Croce, sulla vetta del monte San Primo, sul crinale.
Nei pressi, sorgeva già precedentemente alla vedetta una struttura (costituita da un tumulo di pietre) utilizzata per l'avvistamento dei branchi di tonni.
La struttura attuale fu eretta nel 1956, a cura del SE.L.A.D. (Sezione Lavoro Assistenza Disoccupati) del Genio Civile, un organismo creato nel secondo dopoguerra dal GMA. I disoccupati ottenevano un sussidio, ma dovevano contemporaneamente prestare la loro opera per lavori pubblici. In questo modo furono costruiti a Trieste strade, giardini, marciapiedi, chioschi alle fermate degli autobus... ed anche vedette.
Un meccanismo che oggi parrebbe curioso... ma che forse si farebbe bene a rispolverare.
Sulla terrazza è riportata la tradizionale rosa dei venti, con indicate le principali località visibili.
Visualizza Vedette del Carso Triestino in una mappa di dimensioni maggiori
Vi si giunge percorrendo il sentiero 1, che bisogna abbandonare poco dopo esser usciti dall'abitato per seguire la stradina asfaltata sulla destra che, in pochi minuti, conduce alla vedetta.
Nei pressi della vedetta si trova un punto trigonometrico dell'IGM, un po' malconcio...
mercoledì 23 dicembre 2009
il Mitreo di Duino
In prossimità di Duino si trova l'unico tempio mitriaico ipogeo rinvenuto in Europa, e probabilmente si tratta anche di uno dei più integri e completi.
Si trova in una caverna (catasto 1255/4204 VG ) che venne scoperta nel 1965 da alcuni speleologi della Commissione Grotte Eugenio Boegan.
All’epoca era quasi completamente ostruita da detriti e pietrame; e poiché nei primi lavori di disostruzione furono rinvenuti dei frammenti di lapidi ed altro materiale di epoca romana, fu immediatamente allertata la Sovrintendenza.
Nel corso degli scavi successivamente eseguiti, oltre ai frammenti di lapidi e steli furono scoperti un ricco complesso di monete che andava dal II al IV secolo, lucerne e vasetti di ceramica nord-italica, frammenti di anfore, di tegole e tavelle.
L’insieme dei reperti permise di determinare che si trattava di un tempietto ipogeo dedicato al Dio Mitra, completo di un’ara sacrificale e di due panche longitudinali in pietra, oltre ad una serie di altre are e steli.
Furono realizzati dei calchi delle steli e delle are votive, ed il tempietto fu in parte ricostruito; oggi è quindi visitabile, sia pur con qualche difficoltà…
Trattandosi di un unicum storico e archeologico, ci si aspetterebbe una certa valorizzazione dello stesso, anche turistica… se invece volete visitarlo, armatevi di scarponi e gambe in spalla!
Per raggiungerlo: partendo dal parcheggio dell’ex mobilificio Arcobaleno, si segue un sentiero che si addentra per pochi metri, per sfociare in una larga carrareccia che seguiremo sulla sinistra.
Proseguiremo sulla carrareccia fino a raggiungere la linea ferroviaria, e poi costeggiandola e superando un ex casello (oggi trasformato in abitazione privata), e seguendo ancora per un po' a fianco della linea ferroviaria, fino a dove la carrareccia svolterà decisamente a destra per infilarsi in un sottopasso ferroviario.
Proprio in questo punto, osservando attentamente, troveremo un sentiero sulla sinistra (in realtà, poco più di una traccia) che, dopo poche decine di metri, ci porterà all’ingresso della recinzione che delimita il mitreo.
Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori
Il tempio venne realizzato probabilmente nella seconda metà del I secolo d.C., e fu frequentato fino al IV secolo allorquando, con la diffusione del cristianesimo, in seguito agli Editti di Teodosio del 391 d.C. tutti i culti pagani furono banditi e si verificarono ovunque episodi di danneggiamento o distruzione degli antichi templi. E’ a quest’epoca quindi che possiamo far risalire la devastazione del mitreo, con un autodafé are e steli furono infrante e la grotta venne colmata di detriti…
Il tempio originario era un po’ diverso da come ci si presenta l’attuale, pur ottima, ricostruzione. La volta della grotta era più chiusa (in parte fu fatta brillare durante i lavori di sgombero, in quanto pericolante; in tal modo fu allargato l’accesso e tutta la cavità fu resa più luminosa). Inoltre, all’interno della grotta si trovava originariamente una piccola costruzione, con un tetto in coppi a due falde che copriva l’altare e le due panche.
Il culto di Mitra, o Mitraismo, ebbe la sua origine in medio oriente, e a partire dal I secolo d.C.
Si diffuse nell’impero romano per opera di legionari e mercanti (non è quindi un caso che in tale zona fosse attestata la XIII legione “Gemina”, di origine appunto orientale); tale diffusione avvenne quindi contemporaneamente (ed in “concorrenza”) al cristianesimo, e fu da quest’ultimo perseguitato.
Tuttavia, il cristianesimo deve molto al mitraismo: moltissimi rituali cristiani sono, in realtà, retaggi del mitraismo, successivamente sincretizzati nel cristianesimo.
I mitrei si trovavano quindi quasi esclusivamente in prossimità di grandi città portuali e di luoghi di guarigione.
Era un culto di tipo misterico, ovvero riservato ad iniziati, di sesso maschile, e che avevano superato delle prove (oggidì, non ci è dato di sapere in cosa consistessero queste prove).
Quindi, abbiamo poche e frammentarie informazioni sul culto e la sua ritualità – e queste poche informazioni ci arrivano dalle critiche degli antichi scrittori cristiani, o interpretando le steli rinvenute nei mitrei.
La celebrazione avveniva in ambienti sotterranei, artificiali o, più raramente, naturali; nel rituale avevano parte alcuni animali e personaggi che rappresentavano anche i sette gradi degli iniziati: il corvo (corax), un essere misterioso (gryphus), il soldato (miles), il leone (leo), il persiano (perses), il messaggero del sole (heliodromos) e infine il pater.
Nel Mitraismo l'acqua svolgeva un ruolo purificatorio importante, e spesso i mitrei sorgevano in prossimità di una sorgente naturale o artificiale - e poco distante dal mitreo di Duino troviamo le Foci del Timavo..
I mitrei erano diffusi in tutto l'impero romano; e tutt'oggi, resti di mitrei in muratura sono visibili a Roma, Napoli ed Ostia; tuttavia, come già detto, il mitreo di Duino è l'unico ricavato in una cavità ipogea.
Per approfondire:
Si trova in una caverna (catasto 1255/4204 VG ) che venne scoperta nel 1965 da alcuni speleologi della Commissione Grotte Eugenio Boegan.
All’epoca era quasi completamente ostruita da detriti e pietrame; e poiché nei primi lavori di disostruzione furono rinvenuti dei frammenti di lapidi ed altro materiale di epoca romana, fu immediatamente allertata la Sovrintendenza.
Nel corso degli scavi successivamente eseguiti, oltre ai frammenti di lapidi e steli furono scoperti un ricco complesso di monete che andava dal II al IV secolo, lucerne e vasetti di ceramica nord-italica, frammenti di anfore, di tegole e tavelle.
L’insieme dei reperti permise di determinare che si trattava di un tempietto ipogeo dedicato al Dio Mitra, completo di un’ara sacrificale e di due panche longitudinali in pietra, oltre ad una serie di altre are e steli.
Furono realizzati dei calchi delle steli e delle are votive, ed il tempietto fu in parte ricostruito; oggi è quindi visitabile, sia pur con qualche difficoltà…
Trattandosi di un unicum storico e archeologico, ci si aspetterebbe una certa valorizzazione dello stesso, anche turistica… se invece volete visitarlo, armatevi di scarponi e gambe in spalla!
Per raggiungerlo: partendo dal parcheggio dell’ex mobilificio Arcobaleno, si segue un sentiero che si addentra per pochi metri, per sfociare in una larga carrareccia che seguiremo sulla sinistra.
Proseguiremo sulla carrareccia fino a raggiungere la linea ferroviaria, e poi costeggiandola e superando un ex casello (oggi trasformato in abitazione privata), e seguendo ancora per un po' a fianco della linea ferroviaria, fino a dove la carrareccia svolterà decisamente a destra per infilarsi in un sottopasso ferroviario.
Proprio in questo punto, osservando attentamente, troveremo un sentiero sulla sinistra (in realtà, poco più di una traccia) che, dopo poche decine di metri, ci porterà all’ingresso della recinzione che delimita il mitreo.
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Il tempio venne realizzato probabilmente nella seconda metà del I secolo d.C., e fu frequentato fino al IV secolo allorquando, con la diffusione del cristianesimo, in seguito agli Editti di Teodosio del 391 d.C. tutti i culti pagani furono banditi e si verificarono ovunque episodi di danneggiamento o distruzione degli antichi templi. E’ a quest’epoca quindi che possiamo far risalire la devastazione del mitreo, con un autodafé are e steli furono infrante e la grotta venne colmata di detriti…
Il tempio originario era un po’ diverso da come ci si presenta l’attuale, pur ottima, ricostruzione. La volta della grotta era più chiusa (in parte fu fatta brillare durante i lavori di sgombero, in quanto pericolante; in tal modo fu allargato l’accesso e tutta la cavità fu resa più luminosa). Inoltre, all’interno della grotta si trovava originariamente una piccola costruzione, con un tetto in coppi a due falde che copriva l’altare e le due panche.
Il culto di Mitra, o Mitraismo, ebbe la sua origine in medio oriente, e a partire dal I secolo d.C.
Si diffuse nell’impero romano per opera di legionari e mercanti (non è quindi un caso che in tale zona fosse attestata la XIII legione “Gemina”, di origine appunto orientale); tale diffusione avvenne quindi contemporaneamente (ed in “concorrenza”) al cristianesimo, e fu da quest’ultimo perseguitato.
Tuttavia, il cristianesimo deve molto al mitraismo: moltissimi rituali cristiani sono, in realtà, retaggi del mitraismo, successivamente sincretizzati nel cristianesimo.
I mitrei si trovavano quindi quasi esclusivamente in prossimità di grandi città portuali e di luoghi di guarigione.
Era un culto di tipo misterico, ovvero riservato ad iniziati, di sesso maschile, e che avevano superato delle prove (oggidì, non ci è dato di sapere in cosa consistessero queste prove).
Quindi, abbiamo poche e frammentarie informazioni sul culto e la sua ritualità – e queste poche informazioni ci arrivano dalle critiche degli antichi scrittori cristiani, o interpretando le steli rinvenute nei mitrei.
La celebrazione avveniva in ambienti sotterranei, artificiali o, più raramente, naturali; nel rituale avevano parte alcuni animali e personaggi che rappresentavano anche i sette gradi degli iniziati: il corvo (corax), un essere misterioso (gryphus), il soldato (miles), il leone (leo), il persiano (perses), il messaggero del sole (heliodromos) e infine il pater.
Nel Mitraismo l'acqua svolgeva un ruolo purificatorio importante, e spesso i mitrei sorgevano in prossimità di una sorgente naturale o artificiale - e poco distante dal mitreo di Duino troviamo le Foci del Timavo..
I mitrei erano diffusi in tutto l'impero romano; e tutt'oggi, resti di mitrei in muratura sono visibili a Roma, Napoli ed Ostia; tuttavia, come già detto, il mitreo di Duino è l'unico ricavato in una cavità ipogea.
La stele principale, sulla quale compare la dedica:
D(eo) I(nvicto) M (Mithrae) AV (lus) TULLIVS PAVMNIANVS PRO SAL (ute) ET FRATER SVOR (um) TVLLI SECUNDI ET TVLLI SEVERINI
“All’invitto Dio Mitra Tullio Paumniano offre per la salvezza sua e dei suoi fratelli Tullio Secondo e Tullio Severino”
Oltre alla dedica, si possono individuare sul bassorilievo i seguenti elementi: il Sole, la Luna, Cautes con la fiaccola abbassata, Cautopates con fiaccola alzata, Mitra con il berretto frigio, il toro sacrificato con la coda terminante in spiga, lo scorpione, il serpente, il corvo, la roccia della grotta e gli Offerenti
Oltre alla dedica, si possono individuare sul bassorilievo i seguenti elementi: il Sole, la Luna, Cautes con la fiaccola abbassata, Cautopates con fiaccola alzata, Mitra con il berretto frigio, il toro sacrificato con la coda terminante in spiga, lo scorpione, il serpente, il corvo, la roccia della grotta e gli Offerenti
L'interno del Mitreo ricostruito
In fondo, la stele principale; al fianco, le due panche in pietra su cui sedevano gli officianti; al centro, la "roccia della grotta" che fungeva da altare.Per approfondire:
- Dante Cannarella: "Guida del Carso triestino – Preistoria – Storia – Natura", Edizioni Italo Svevo – Trieste 1975
- Dante Cannarella, in “Atti della Società per la Preistoria e Protostoria” della Regione Friuli Venezia Giulia vol. III, Arti Grafiche Pacini Mariotti – Pisa 1979
- Donata Degrassi, "Le strade di Aquileia – Nuovi itinerari tra Friuli e Golfo Adriatico", Libreria Editrice Goriziana - Gorizia 2000
sabato 19 dicembre 2009
la leggenda della Grotta del Diavolo Zoppo
Fino a tempi non troppo remoti esisteva in prossimità delle foci del Timavo una grotta, detta “del Diavolo Zoppo” (catasto 39/225VG ), alle falde del colle detto “Monte Sant’Antonio”.
Era piccolina (lunga 34 metri, profonda 9) e, dopo la prima guerra mondiale, una cava a servizio di un cementificio si “mangiò” tutto il Monte Sant’Antonio e, con esso, la “Grotta del Diàul Zot”.
L’aspetto più interessante di questa grotta è costituito dalle leggende che si sono formate attorno ad essa.
Lo stesso nome deriva da una suggestiva leggenda, raccolta da Giacomo Pocar:
...in tempi remotissimi sul monticello di Sant’Antonio, quand’esso era ancora un’isola, vi fu la continuazione di una grande guerra incominciata in terraferma.
Quand’era sulle mosse per partire col suo tesoro, una freccia nemica lo colpì ed il guerriero cadde moribondo al suolo.
Vedendosi prossimo a morire, testò le sue ricchezze a favore dei poveri, pensando così di placare l’ira di Dio che tremenda gli sovrastava, per punirlo delle ruberie e degli assassini commessi.
Appena morto quel tristo, ecco comparire presso il cadavere un angelo sfolgorante di luce ed un orribile demonio. Il primo sosteneva che, in base al testamento del defunto, il tesoro apparteneva ai poveri e ch’egli era incaricato della distribuzione; l’altro intendeva che quelle ricchezze fossero roba sua, perché,carpite con saccheggi ed uccisioni.
Dalle parole vennero ai fatti, e dopo un’accanita lotta, vinse il demonio.
Ma questi, nella fretta di fuggire, tutto fuori di sé per la riportata vittoria,correndo precipitò in questa grotta trascinandosi dietro il cassone, che gli si rovesciò addosso rompendogli una gamba.
Il demonio divenne quindi zoppo, e da ciò ”la grotta del Diavolo Zoppo”
Per questo accidente non potè proseguire il viaggio fino all’inferno e dovette decidersi a fermar qui la sua dimora, se voleva custodire il tesoro.
Quando ci sono voci del genere, si sa, i ricercatori di tesori si scatenano…
Ma fu una ricerca che giocò brutti scherzi ai novelli Indiana Jones.
Pare infatti che intorno al 1730 quattro villici, accompagnati da un oste della zona, si avventurarono nella grotta, con la speranza di arricchirsi...
E fosse suggestione, fosse il volo di uccelli notturni o pipistrelli che nella grotta avevano trovato rifugio, i cinque malcapitati subirono un gravissimo spavento… tant’è che quattro di loro, nei giorni successivi, morirono per causa oscura.
Stessa misteriosa sorte toccò, poco tempo dopo, a due preti che, in compagnia di una donna, tentarono la medesima impresa.
Nel suo "Ragguaglio geografico storico del territorio di Monfalcone", pubblicato a Udine nel 1741, lo storico Basilio Asquini ci racconta:
... è fama, che in questa grotta da più secoli stia nascosto un tesoro, dall’avidità di posseder il quale spinti quattro Carsolini, che colà erano stati mandati ad appianare la prossima già mentovata strada, uniti ad Antonio Sborzo Oste de’Bagni, deliberarono di introdursi in detta Grotta, e di non uscirvi, che molto ricchi.
Munitosi perciò ciascuno di loro di una torcia a vento, di quelle, che sogliono i contadini adoperare in quelle parti, chiamate da loro Falle, animosamente un dopo l’altro calarono nella medesima.
Internatisi alquanto in essa sentirono eccitarsi un grandissimo strepitio, che non di poco terrore fu loro cagione.
Tuttavia fattisi tra se coraggio, avvanzonsi ancora alcuni passi; ma venutili incontro alcuni grandi uccelli, li quali essi presero per Diavoli alati che coll’ale smorzarono loro le torcie, e che contro i medesimi grandi strida gittarono; senza più inoltrarsi, risolsero, come fecero, di ritornarsene addietro. Lo spavento, che per ciò concepirono, talmente loro nacque, che posti tutti cinque a letto, i quattro Carsolini in termine di pochi giorni tutti morirono, e l’Oste se non dopo una lunga infermità potè ristabilirsi in salute.
Ciò saputo avendo due Preti, i cui nomi stimiamo ben fatto tacere, giovani, e molto animosi, stimolati anch’essi dalla stessa fame dell’oro, che fa parere ogni pericolo picciolo, ed ogni fatica leggiera; figurandosi forse di avere più coraggio de’ prefati Carsolini, vollero anch’essi tentare di questo tesoro l’acquisto.
Scieltasi adunque una notte molto burrascosa, ed oscura per non essere veduti da’ Veneti , da’ quali temevano dover essi venire sturbati, per esser Arciducali, si posero in cammino in questa Grotta insieme con una donna, che conducevano seco, acciochè servisse al trasporto dell’ambita ricchezza.
Giunti, che furono col beneficio di una lanterna accesa, che ognuna di loro portava, scesero in quella: ed aggiratisi per vari seni della medesima, alla fine giunsero ad un passo stretto, frammentato da un pezzo di macigno, che una colonna sembrava.
Mentre preparavansi un dietro l’altro passarlo, si fe loro incontro un grande uccello, il quale avventateli contro col rostro, ed artigli, e strettamente gracchiando gli empi’ di tali orrori, e spavento, che potendosi appena reggere in piedi sen’unscironoo da quella Spelonca.
Ritornati a casa molto languidi, e mesti, si posero anch’essi a letto, e nello spazio di pochi giorni, tutti e tre parimenti sen passarono all’altra vita.
Dopo questi non si sa, che ad altri sia venuto il prurito di andare in cerca di questo tesoro…
Nel 1890 alcuni notabili di Monfalcone intrapresero un’accurata esplorazione, e la grotta fu frugata invano in ogni dove: nessun tesoro fu trovato. In compenso, furono rinvenuti un teschio ed altri frammenti ossei, coperti da grosse incrostazioni calcaree, e quindi evidentemente antichi. Forse anche la vista di queste ossa aveva contribuito a spaventare a morte i primi esploratori….
Il Kandler, quando la esplorò, commentò laconicamente:
Io stetti lungamente fra quei stalattiti, che hanno invero forme da scaldare l’immaginazione.
Ma il Diavolo non c’era, o si finse assente, e gli lasciai la mia carta…
Era piccolina (lunga 34 metri, profonda 9) e, dopo la prima guerra mondiale, una cava a servizio di un cementificio si “mangiò” tutto il Monte Sant’Antonio e, con esso, la “Grotta del Diàul Zot”.
L’aspetto più interessante di questa grotta è costituito dalle leggende che si sono formate attorno ad essa.
Lo stesso nome deriva da una suggestiva leggenda, raccolta da Giacomo Pocar:
...in tempi remotissimi sul monticello di Sant’Antonio, quand’esso era ancora un’isola, vi fu la continuazione di una grande guerra incominciata in terraferma.
Quand’era sulle mosse per partire col suo tesoro, una freccia nemica lo colpì ed il guerriero cadde moribondo al suolo.
Vedendosi prossimo a morire, testò le sue ricchezze a favore dei poveri, pensando così di placare l’ira di Dio che tremenda gli sovrastava, per punirlo delle ruberie e degli assassini commessi.
Appena morto quel tristo, ecco comparire presso il cadavere un angelo sfolgorante di luce ed un orribile demonio. Il primo sosteneva che, in base al testamento del defunto, il tesoro apparteneva ai poveri e ch’egli era incaricato della distribuzione; l’altro intendeva che quelle ricchezze fossero roba sua, perché,carpite con saccheggi ed uccisioni.
Dalle parole vennero ai fatti, e dopo un’accanita lotta, vinse il demonio.
Ma questi, nella fretta di fuggire, tutto fuori di sé per la riportata vittoria,correndo precipitò in questa grotta trascinandosi dietro il cassone, che gli si rovesciò addosso rompendogli una gamba.
Il demonio divenne quindi zoppo, e da ciò ”la grotta del Diavolo Zoppo”
Per questo accidente non potè proseguire il viaggio fino all’inferno e dovette decidersi a fermar qui la sua dimora, se voleva custodire il tesoro.
Quando ci sono voci del genere, si sa, i ricercatori di tesori si scatenano…
Ma fu una ricerca che giocò brutti scherzi ai novelli Indiana Jones.
Pare infatti che intorno al 1730 quattro villici, accompagnati da un oste della zona, si avventurarono nella grotta, con la speranza di arricchirsi...
E fosse suggestione, fosse il volo di uccelli notturni o pipistrelli che nella grotta avevano trovato rifugio, i cinque malcapitati subirono un gravissimo spavento… tant’è che quattro di loro, nei giorni successivi, morirono per causa oscura.
Stessa misteriosa sorte toccò, poco tempo dopo, a due preti che, in compagnia di una donna, tentarono la medesima impresa.
Nel suo "Ragguaglio geografico storico del territorio di Monfalcone", pubblicato a Udine nel 1741, lo storico Basilio Asquini ci racconta:
... è fama, che in questa grotta da più secoli stia nascosto un tesoro, dall’avidità di posseder il quale spinti quattro Carsolini, che colà erano stati mandati ad appianare la prossima già mentovata strada, uniti ad Antonio Sborzo Oste de’Bagni, deliberarono di introdursi in detta Grotta, e di non uscirvi, che molto ricchi.
Munitosi perciò ciascuno di loro di una torcia a vento, di quelle, che sogliono i contadini adoperare in quelle parti, chiamate da loro Falle, animosamente un dopo l’altro calarono nella medesima.
Internatisi alquanto in essa sentirono eccitarsi un grandissimo strepitio, che non di poco terrore fu loro cagione.
Tuttavia fattisi tra se coraggio, avvanzonsi ancora alcuni passi; ma venutili incontro alcuni grandi uccelli, li quali essi presero per Diavoli alati che coll’ale smorzarono loro le torcie, e che contro i medesimi grandi strida gittarono; senza più inoltrarsi, risolsero, come fecero, di ritornarsene addietro. Lo spavento, che per ciò concepirono, talmente loro nacque, che posti tutti cinque a letto, i quattro Carsolini in termine di pochi giorni tutti morirono, e l’Oste se non dopo una lunga infermità potè ristabilirsi in salute.
Ciò saputo avendo due Preti, i cui nomi stimiamo ben fatto tacere, giovani, e molto animosi, stimolati anch’essi dalla stessa fame dell’oro, che fa parere ogni pericolo picciolo, ed ogni fatica leggiera; figurandosi forse di avere più coraggio de’ prefati Carsolini, vollero anch’essi tentare di questo tesoro l’acquisto.
Scieltasi adunque una notte molto burrascosa, ed oscura per non essere veduti da’ Veneti , da’ quali temevano dover essi venire sturbati, per esser Arciducali, si posero in cammino in questa Grotta insieme con una donna, che conducevano seco, acciochè servisse al trasporto dell’ambita ricchezza.
Giunti, che furono col beneficio di una lanterna accesa, che ognuna di loro portava, scesero in quella: ed aggiratisi per vari seni della medesima, alla fine giunsero ad un passo stretto, frammentato da un pezzo di macigno, che una colonna sembrava.
Mentre preparavansi un dietro l’altro passarlo, si fe loro incontro un grande uccello, il quale avventateli contro col rostro, ed artigli, e strettamente gracchiando gli empi’ di tali orrori, e spavento, che potendosi appena reggere in piedi sen’unscironoo da quella Spelonca.
Ritornati a casa molto languidi, e mesti, si posero anch’essi a letto, e nello spazio di pochi giorni, tutti e tre parimenti sen passarono all’altra vita.
Dopo questi non si sa, che ad altri sia venuto il prurito di andare in cerca di questo tesoro…
Nel 1890 alcuni notabili di Monfalcone intrapresero un’accurata esplorazione, e la grotta fu frugata invano in ogni dove: nessun tesoro fu trovato. In compenso, furono rinvenuti un teschio ed altri frammenti ossei, coperti da grosse incrostazioni calcaree, e quindi evidentemente antichi. Forse anche la vista di queste ossa aveva contribuito a spaventare a morte i primi esploratori….
Il Kandler, quando la esplorò, commentò laconicamente:
Io stetti lungamente fra quei stalattiti, che hanno invero forme da scaldare l’immaginazione.
Ma il Diavolo non c’era, o si finse assente, e gli lasciai la mia carta…
martedì 8 dicembre 2009
La vedetta Liburnia
La vedetta Liburnia si trova ad Aurisina, sul ciglione, nella sella tra il monte Berciza ed il monte Babiza.
Si tratta di una ex "torre piezometrica", ovvero di una struttura tecnica a servizio dell'acquedotto, che ha la funzione di mantenere sufficientemente alta e regolare la pressione dell'acqua. In particolare, questa "torre piezometrica" era collegata ad un ramo d'acquedotto da 6 pollici che, partendo dalle Sorgenti di Aurisina, serviva la Stazione ferroviaria.
Fu eretta negli anni 1854/56, in quella che allora era una desolata landa carsica, nella quale la torre doveva spiccare come una torre medievale. Oggi è invece circondata da un fitto bosco di pini, che cominciano quasi ad insidiarne il primato dell'altezza.
Il progetto di tutto l'acquedotto (ed anche dell'attuale vedetta Liburnia) fu firmato dall'ingegnere viennese Carl Junker (1827-1882) - lo stesso del Castello di Miramare. Bei tempi, nei quali una struttura "tecnica" non doveva esser solo efficiente ma, se possibile, anche architettonicamente aggraziata... e nei quali un architetto di grido non trovava degradante utilizzare il suo talento anche per opere minori.
All'epoca della sua edificazione, fu motivo di una querelle con gli abitanti di Santa Croce; infatti la torre, e le relative tubature, si trovano su terreni di proprietà della Comunella di Santa Croce.
Il 9.9.1861 i delegati Antonio Cossutta e Giuseppe Bogatez presentarono un’istanza al Consiglio Municipale di Trieste per il ripristino del pieno diritto di proprietà degli abitanti di Santa Croce sul fondo n. tav. 3348 e n. cat. 454, occupato dalla Società Acquedotto Aurisina con le opere di canalizzazione ed il serbatoio. Ricordano come detti abitanti non furono preventivamente consultati ed alle loro proteste fu risposto, dal Presidente cav. Scrinzi e dall’ing. Junker, che per il bisogno della villa si sarebbe aperta una spina d’acqua perenne. Invece la popolazione, di oltre milleduecento anime, ha solo una cisterna. La cui acqua non basta nemmeno per quattro mesi all’anno, per cui bisogna recarsi “collo spendio di trequarti d’ora fra andata e ritorno ad una sorgente presso il mare e ciò per aspra strada o addirittura mandare i carri a San Giovanni di Duino”. All’istanza è allegata una “mappa censuaria della Comune di S.ta Croce nel Litorale, Territorio di Trieste”.
Appena nel marzo 1862 il Comune di Trieste informa della questione la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, ricordando che “ripetute volte gli abitanti del villaggio hanno chiesto che fosse accordato uno sbocco d’acqua, ad essi stato promesso in compenso del fondo comunale occupato per l’acquedotto” ed invitandola perciò “a voler dichiararsi, in qual modo ritiene di venir incontro alla domanda dei medesimi”. La discussione si trascina negli anni seguenti, con un tentativo di coinvolgere anche la Società della Ferrovia Meridionale (Südbahn – Gesellscahaft), che però declina ogni responsabilità nel merito, in quanto la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, all’epoca in cui aveva ceduto gli impianti (1858), si era assunta l’obbligo di definire tutte le pendenze relative all’occupazione dei fondi.
Gli abitanti di Santa Croce dovettero quindi attendere ancora a lungo, prima di ottenere finalmente l'acqua...
(fonte: Egizio FARAONE - PROBLEMI AMMINISTRATIVI E FINANZIARI NELLA COSTRUZIONE DELL’ACQUEDOTTO DI AURISINA (1853-1860) )Gli abitanti di Santa Croce dovettero quindi attendere ancora a lungo, prima di ottenere finalmente l'acqua...
Abbandonata nel secondo dopoguerra, fu riadattata ed attrezzata a vedetta nel 1985, a cura della sezione CAI di Fiume, per celebrare il proprio centenario.
I lavori (che consistettero nel riconsolidamento della struttura muraria, e nella costruzione all'interno di una struttura metallica con scale) fu eseguito dall'impresa Innocente e Stipanovich. A ricordarlo, una targa infissa all'esterno:
panorama verso nord
Anche se, come detto, si trova in una sella, la modesta altitudine delle alture che la coronano permette di spaziare con lo sguardo a 360°, e la rende probabilmente la più panoramica di tutte le vedette triestine.La struttura interna con la scala metallica che, dopo un quarto di secolo, una mano di vernice anche se la meriterebbe...
E' stato conservato il grosso tubo che, originariamente, collegava il serbatoio con l'acquedotto. un frammento della scala originale in pietra
Visualizza Vedette del Carso Triestino in una mappa di dimensioni maggiori
sabato 5 dicembre 2009
Miramar o Miramare ?
(foto di London_ally)
Si dice "Miramar" o "Miramare"?
Oggi si tende a considerare "Miramar" la versione dialettale di "Miramare", che quindi parrebbe quella corretta...
E già ai tempi dell'edificazione del celebre castello, la forma "Miramare" era diffusa sulla stampa e anche nei documenti ufficiali in italiano.
Giosué Carducci titola una sua ode "Miramar" (Odi Barbare, I libro) ma, nel testo, scrive poi "Miramare"... lasciando la questione irrisolta.
E allora? "Miramar" o "Miramare"?
L’Osservatore Triestino del 9/9/1858 precisa:
all’augusto possessore di quella punta di terra chiamata punta di Grignano, piacque intitolarla col nome spagnuolo di Miramar, che significa semplicemente “Guardar sul mare”, mentre Miramare sarebbe bensì il nome italianizzato... però non esprimerebbe l’intendimento concepito dal serenissimo Arciduca.
In conclusione: "Miramar" è il nome originale, e "Miramare" solo la successiva versione italianizzata.
"Miramar" ha quindi cittadinanza non solo come "versione dialettale", ma anche come "voce dotta".
E Carducci titolò correttamente "Miramar", e probabilmente usò la forma "Miramare" nel testo per esigenze di metrica.
Poiché ho osservato che l'ode "Miramar" tutto sommato non è nota come ci si aspetterebbe (almeno dalle nostre parti)... concludo proponendovene la lettura:
Miramar
O Miramare, a le tue bianche torri
attedïate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
O Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastïon di scogli
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.
Deh come tutto sorridea quel dolce
mattin d'aprile, quando usciva il biondo
imperatore, con la bella donna,
a navigare!
A lui dal volto placida raggiava
la maschia possa de l'impero: l'occhio
de la sua donna cerulo e superbo
iva su 'l mare.
Addio, castello pe' felici giorni
nido d'amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
aura gli sposi.
Lascian le sale con accesa speme
istorïate di trionfi e incise
di sapïenza. Dante e Goethe al sire
parlano in vano
de le animose tavole: una sfinge
l'attrae con vista mobile su l'onde:
ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro
del romanziero.
Oh non d'amore e d'avventura il canto
fia che l'accolga e suono di chitarre
là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
lunga su l'aure
vien da la trista punta di Salvore
nenia tra 'l roco piangere de' flutti?
Cantano i morti veneti o le vecchie
fate istriane?
- Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro,
figlio d'Absburgo, la fatal Novara.
Teco l'Erinni sale oscura e al vento
apre la vela.
Vedi la sfinge tramutar sembiante
a te d'avanti perfida arretrando!
È il viso bianco di Giovanna pazza
contro tua moglie.
È il teschio mózzo contro te ghignante
d'Antonïetta. Con i putridi occhi
in te fermati è l'irta faccia gialla
di Montezuma.
Tra boschi immani d'agavi non mai
mobili ad aura di benigno vento,
sta ne la sua piramide, vampante
livide fiamme
per la tenèbra tropicale, il dio
Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
e navigando il pelago co 'l guardo
ulula - Vieni.
Quant'è che aspetto! La ferocia bianca
strussemi il regno ed i miei templi infranse;
vieni, devota vittima, o nepote
di Carlo quinto.
Non io gl'infami avoli tuoi di tabe
marcenti o arsi di regal furore;
te io voleva, io colgo te, rinato
fiore d'Absburgo;
e a la grand'alma di Guatimozino
regnante sotto il padiglion del sole
ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
Massimiliano.
martedì 1 dicembre 2009
Streghe, Orchi e Krivapete - Le grotte tra miti e leggende
Sono passate poche ore dal mio post sullo Škrat, e quasi per caso ho scoperto su Scintilena di un interessante convegno, organizzato per sabato 19 dicembre dalla Federazione Speleologica Isontina: una tavola rotonda sulle leggende legate alle grotte del Friuli Venezia Giulia.
La tavola rotonda si intitolerà: Streghe, Orchi e Krivapete - Le grotte tra miti e leggende. Si svolgerà presso la Sala Consigliare della Provincia di Gorizia - Corso Italia, 55 a Gorizia a partire dalle ore 9.00.
PROGRAMMA:
Ore 9.00 - Saluto delle autorità e apertura dei lavori
Ore 9.30 - Paolo Montina Situazione degli studi sul folklore del mondo ipogeo negli ultimi anni.
Ore 10.00 - Pausa caffè.
Ore 10.30 - Anna Degenhardt - Simbologie magiche legate alle grotte e personaggi mitici delle tradizioni friulane.
Ore 11.30 - Franco Gherlizza - Miti e leggende ipogee del Friuli Venezia Giulia.
Ore 12.30 - Pausa pranzo.
Ore 14.00 - Maurizio Tavagnutti - Streghe, Krivapete e altri esseri mitici delle grotte friulane.
Ore 15.00 - Franco Gherlizza - Comparazione con esseri fantastici, miti e leggende di altri paesi.
Ore 16.00 - Proiezione del filmato “Malifice”.
Ore 17.00 - Conclusione dei lavori.
(fonte: Scintilena)
La tavola rotonda si intitolerà: Streghe, Orchi e Krivapete - Le grotte tra miti e leggende. Si svolgerà presso la Sala Consigliare della Provincia di Gorizia - Corso Italia, 55 a Gorizia a partire dalle ore 9.00.
PROGRAMMA:
Ore 9.00 - Saluto delle autorità e apertura dei lavori
Ore 9.30 - Paolo Montina Situazione degli studi sul folklore del mondo ipogeo negli ultimi anni.
Ore 10.00 - Pausa caffè.
Ore 10.30 - Anna Degenhardt - Simbologie magiche legate alle grotte e personaggi mitici delle tradizioni friulane.
Ore 11.30 - Franco Gherlizza - Miti e leggende ipogee del Friuli Venezia Giulia.
Ore 12.30 - Pausa pranzo.
Ore 14.00 - Maurizio Tavagnutti - Streghe, Krivapete e altri esseri mitici delle grotte friulane.
Ore 15.00 - Franco Gherlizza - Comparazione con esseri fantastici, miti e leggende di altri paesi.
Ore 16.00 - Proiezione del filmato “Malifice”.
Ore 17.00 - Conclusione dei lavori.
(fonte: Scintilena)
lunedì 30 novembre 2009
Lo Škrat
Sembra che molte grotte del Carso abbiano un curioso abitante: lo "Škrat".
E' uno gnomo burlone, vestito con una giacca verde ed un berretto rosso a punta.
Per mangiare, si serve di una scodella di coccio. E per questo motivo non bisogna mai buttare sassi nelle grotte: se, disgraziatamente, si dovesse colpire la scodella dello Škrat, questo si adirerà, e rapirà il colpevole, del quale non si saprà mai più nulla.
Se invece si lancia un sasso in una grotta e non se ne sente il tonfo, è perchè lo Škrat lo ha raccolto al volo.
Lo Škrat è molto vicino ad analoghe figure mitologiche presenti in Austria e nella Germania meridionale, dal nome quasi identico: Schrat, Schraz, Schrate. Ma anche in Polonia (Skrzat), Norvegia, Repubblica Ceca... ed appartiene a quella vasta schiera di folletti-spiriti della natura, presenti in tutta Europa, spesso legati al mondo sotterraneo, in cui troviamo anche i Lepricauni, i Coboldi, i Troll, i Goblin, gli Gnomi...
Se si vuole far la conoscenza di qualche esponente di questa numerosa famiglia, non occorre andar quindi molto lontani: basta scegliere la grotta giusta, tra le tante a disposizione in Carso...
Un indizio della presenza dello Škrat?
E' un burlone, ed uno dei suoi scherzi preferiti è quello di spegnere la lanterna degli incauti esploratori delle grotte. Se ad uno speleologo capita che si spenga la lampada a carburo... attenzione! Nei pressi potrebbe esserci uno Škrat che se la sta ridendo!
E' uno gnomo burlone, vestito con una giacca verde ed un berretto rosso a punta.
Per mangiare, si serve di una scodella di coccio. E per questo motivo non bisogna mai buttare sassi nelle grotte: se, disgraziatamente, si dovesse colpire la scodella dello Škrat, questo si adirerà, e rapirà il colpevole, del quale non si saprà mai più nulla.
Se invece si lancia un sasso in una grotta e non se ne sente il tonfo, è perchè lo Škrat lo ha raccolto al volo.
Lo Škrat è molto vicino ad analoghe figure mitologiche presenti in Austria e nella Germania meridionale, dal nome quasi identico: Schrat, Schraz, Schrate. Ma anche in Polonia (Skrzat), Norvegia, Repubblica Ceca... ed appartiene a quella vasta schiera di folletti-spiriti della natura, presenti in tutta Europa, spesso legati al mondo sotterraneo, in cui troviamo anche i Lepricauni, i Coboldi, i Troll, i Goblin, gli Gnomi...
Se si vuole far la conoscenza di qualche esponente di questa numerosa famiglia, non occorre andar quindi molto lontani: basta scegliere la grotta giusta, tra le tante a disposizione in Carso...
Un indizio della presenza dello Škrat?
E' un burlone, ed uno dei suoi scherzi preferiti è quello di spegnere la lanterna degli incauti esploratori delle grotte. Se ad uno speleologo capita che si spenga la lampada a carburo... attenzione! Nei pressi potrebbe esserci uno Škrat che se la sta ridendo!
lunedì 9 novembre 2009
Mappa dei castellieri del Carso Triestino
In questa mappa di Google Maps ho voluto raccogliere le posizioni dei principali castellieri del Carso Triestino.
Vale la pena di giocare un po' con Google Maps, zoomando sui singoli castellieri: alcuni, nella foto satellitare, saranno praticamente invisibili, mentre altri appariranno evidentissimi...
La mappa non è completa, ma è mia intenzione integrarla e completarla nel tempo...
Se qualcuno vuol collaborare, o anche solo inviare una segnalazione, si faccia avanti...
Visualizza Castellieri del Carso in una mappa di dimensioni maggiori
Vale la pena di giocare un po' con Google Maps, zoomando sui singoli castellieri: alcuni, nella foto satellitare, saranno praticamente invisibili, mentre altri appariranno evidentissimi...
La mappa non è completa, ma è mia intenzione integrarla e completarla nel tempo...
Se qualcuno vuol collaborare, o anche solo inviare una segnalazione, si faccia avanti...
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giovedì 5 novembre 2009
Vedette del Carso triestino
Le Vedette sono delle caratteristiche costruzioni in muratura, sparse lungo il territorio della Provincia di Trieste, in punti particolarmente panoramici.
Da nord a sud, le vedette attualmente esistenti sono le seguenti:
Un lungo sentiero, che attraversa tutta la provincia, è dedicato a Julius Kugy e tocca tutte le vedette.
Visualizza Vedette del Carso Triestino in una mappa di dimensioni maggiori
Sulla vetta del Monte San Leonardo vi è una vedetta, incompiuta: all'epoca della costruzione (anni '60), la zona era militarmente molto importante, tanto da esser costantemente presidiata dall'esercito. Il completamento della costruzione fu impedito quindi dalle autorità militari, in quanto avrebbe potuto costituire un pericoloso punto di riferimento per le artiglierie nemiche nel caso di un (allora non tanto) ipotetico conflitto.
Oggi, che questi problemi fortunatamente non sussistono più, si potrebbe anche completarla...
Molte vedette, dall'architettura anche pregevole, sono oggi scomparse. Ad esempio, la Vedetta Ortensia o Vedetta di Opicina - (Opicina, zona Obelisco) - costruita dall'Alpina delle Giulie nel 1890.
Un'altra vedetta, oggi sommersa dalle vegetazione, si trova in prossimità del Ferdinandeo.
Particolarmente pregevole, tra le vedette scomparse, la Vedetta del Giubileo (o Vecchia Vedetta Italia)
Da nord a sud, le vedette attualmente esistenti sono le seguenti:
- Vedetta Tiziana Weiss - (Aurisina Cave - m. 160 s.l.m.)
- Vedetta Liburnia - (Aurisina - m. 179 s.l.m.)
- Vedetta Slataper - (Santa Croce - m. 278 s.l.m.) - costruita nel 1956
- Vedetta d’Italia - (Prosecco, sul ciglione soprastante la Strada Napoleonica, in prossimità di Monte Grisa)
Con nome di "vedetta del Giubileo", fu costruita nei primi anni del '900 ed inaugurata nel 1908; fu realizzata dal Club Touristi Triestini, che la dedicò a Francesco Giuseppe in occasione del suo Giubileo dei 50 anni di regno. Era una torre in pietra carsica, alta 11 metri.
Nel 1922, dopo la Prima Guerra Mondiale, passò alla Società Alpina delle Giulie che la ribattezzò "Vedetta Italia" o "Vedetta d'Italia".
Fu poi demolita dall'esercito tedesco nel 1944 in quanto costituiva un pericoloso punto di riferimento.
La vedetta attuale fu infine riedificata dalla Società Alpina delle Giulie nel secondo dopoguerra.
- Vedetta Alice - (Padriciano, in prossimità dell’Area di Ricerca - m. 452 s.l.m.)
Originariamente, la Vedetta Alice fu eretta nel 1897, tra il Valico di Trebiciano ed il Monte Calvo. Venne realizzata traslando la torre di un fontanone che si trovava in Piazza Dogana. Per la precisione, inaugurata il 29 giugno 1897, ed il nome di Alice le fu dato in onore della consorte del vicepresidente della società avvocato Giuseppe Luzzatto.
Fu demolita nel 1915 dall'esercito austriaco.
La nuova vedetta fu costruita sul Monte Calvo nel 1957 dall'Ente per il Turismo di Trieste.
- Vedetta di San Lorenzo - (Val Rosandra, sopra la pista ciclabile ricavata dall’ex-ferrovia Trieste-Erpelle - m. 370 s.l.m.)
- Vedetta di Moccò - (sull'omonimo colle, in prossimità delle rovine dell'antico castello di Moccò - m. 200 s.l.m.)
- Vedetta di Crogole - (Val Rosandra, sul Monte Carso - m. 210 s.l.m.)
Un lungo sentiero, che attraversa tutta la provincia, è dedicato a Julius Kugy e tocca tutte le vedette.
Visualizza Vedette del Carso Triestino in una mappa di dimensioni maggiori
Sulla vetta del Monte San Leonardo vi è una vedetta, incompiuta: all'epoca della costruzione (anni '60), la zona era militarmente molto importante, tanto da esser costantemente presidiata dall'esercito. Il completamento della costruzione fu impedito quindi dalle autorità militari, in quanto avrebbe potuto costituire un pericoloso punto di riferimento per le artiglierie nemiche nel caso di un (allora non tanto) ipotetico conflitto.
Oggi, che questi problemi fortunatamente non sussistono più, si potrebbe anche completarla...
Molte vedette, dall'architettura anche pregevole, sono oggi scomparse. Ad esempio, la Vedetta Ortensia o Vedetta di Opicina - (Opicina, zona Obelisco) - costruita dall'Alpina delle Giulie nel 1890.
Un'altra vedetta, oggi sommersa dalle vegetazione, si trova in prossimità del Ferdinandeo.
Particolarmente pregevole, tra le vedette scomparse, la Vedetta del Giubileo (o Vecchia Vedetta Italia)
venerdì 30 ottobre 2009
il sommaco
In questo periodo, subito dopo il primo freddo d'autunno, per merito del Sommaco ampie zone del Carso si tingono di colori che variano dal giallo oro al rosso brillante al porpora, e che paiono talvolta vere e proprie fiammate nel paesaggio della landa carsica.
Immagini suggestive, che hanno nel tempo evocato tristi figure retoriche: "il Carso, che si tinge di rosso per il sangue dei soldati caduti"...
Le foglie, ricche di tannino e trementina, venivano una volta usate nella concia delle pelli, per la tintura delle stoffe, ma anche per un decotto fortemente astringente.
E se le foglie venivano usate per tingere di rosso, il legno veniva invece usato per ottenere il giallo.
Il legno di Sommaco (splendido, duro, compatto, con venature gialle e verdi) veniva usato in tornitura, dagli ebanisti, dai liutai e per fare pipe.
E' una pianta eccezionalmente robusta, che si accontenta di affondare le proprie radici in pochi centimetri di terra tra le fessure della roccia. E neanche il fuoco riesce ad averne facilmente ragione: la foto sopra è stata scattata ad ottobre sul Monte Sei Busi, interessato lo scorso agosto da un ampio incendio boschivo. Sono passati poco più di due mesi ed i rami carbonizzati, spettrali, accolgono già ai loro piedi le prime foglie nuove...
Immagini suggestive, che hanno nel tempo evocato tristi figure retoriche: "il Carso, che si tinge di rosso per il sangue dei soldati caduti"...
Il merito, si diceva, è del Sommaco o Sommacco, un caratteristico arbusto il cui nome scientifico è Cotinus coggygria Scop. o Rhus cotinus L., ma che è anche noto come Scotano o con il suggestivo nome di "albero di nebbia" (nome dovuto alle infruttescenze, vistosamente piumate, e che paiono quasi sbuffi di fumo).
Pare che il nome di Rhus, e Rhous in greco, derivi dalla parola celtica rhud (rosso).
Non è da confondersi con il "Sommaco velenoso" (Rhus Toxicodendron). Il Sommaco nostrano non è certamente edibile, ma neppure velenoso come il Rhus Toxicodendron.
E se le foglie venivano usate per tingere di rosso, il legno veniva invece usato per ottenere il giallo.
Il legno di Sommaco (splendido, duro, compatto, con venature gialle e verdi) veniva usato in tornitura, dagli ebanisti, dai liutai e per fare pipe.
Nella landa carsica, battuta dalla Bora, la sua altezza raramente raggiunge i due metri. Ma se attecchisce in zone riparate, allora si sviluppa in altezza, raggiungendo anche la dignità di albero. A San Giovanni del Timavo, in prossimità della Chiesa, si trova un esemplare centenario, alto 7 metri e con il tronco della circonferenza di un metro).
E' una pianta eccezionalmente robusta, che si accontenta di affondare le proprie radici in pochi centimetri di terra tra le fessure della roccia. E neanche il fuoco riesce ad averne facilmente ragione: la foto sopra è stata scattata ad ottobre sul Monte Sei Busi, interessato lo scorso agosto da un ampio incendio boschivo. Sono passati poco più di due mesi ed i rami carbonizzati, spettrali, accolgono già ai loro piedi le prime foglie nuove...
lunedì 26 ottobre 2009
La Dolina dei Druidi di Fernetti
La Dolina dei Druidi di Fernetti... alias Valle della Luna, alias Dolina delle Streghe, alias Tempio del Sole (ma anche Tempio della Luna), e ancora la Dolina delle Streghe, o, prosaicamente, la Dolina Rossoni.
Uno degli angoli più chiacchierati del Carso, per il velo di mistero che circonda le sue bizzarre costruzioni, ormai in rovina...
Andiamo con ordine.
La Dolina... come la vogliamo chiamare? Per me, è sempre stata la Valle della Luna, e così mi piacerebbe continuare a chiamarla.... ma poichè ho scoperto che il suo vero nome sarebbe "Dolina dei Druidi", chiamiamola così, in rispetto del suo edificatore.
La Dolina dei Druidi si trova a poche decine di metri dall'autoporto di Fernetti. Per raggiungerla, bisogna seguire la strada che, da Fernetti, conduce verso Monrupino. Una volta superato il cavalcavia sopra all'autoporto, sulla sinistra c'è una piazzola di parcheggio.
Da lì, una strada sterrata corre parallelalmente al cavalcavia, verso l'autoporto, e poi piega a destra continuando a costeggiarlo. Dobbiamo seguirla (scavalcando i cumuli di immondizia scaricati dal soprastante autoporto... ah, la civiltà e l'educazione dei camionisti!) e, al termine di un'ampia curva, abbandoneremo (finalmente) l'autoporto seguendo un sentiero.
Un'immagine val più di mille parole. Quindi, seguite la mappa:
Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori
Pochi metri, e sul bordo del sentiero cominciano le sorprese: tre grandi archi in pietra, seminascosti dalla vegetazione, ci indicano la porta verso un mondo suggestivo e mosterioso:
Da Dolina dei Druidi di Fernetti |
Più avanti, scendendo nella dolina lungo una strada che la percorre a spirale, intravediamo i resti di costruzioni dall'aspetto fantastico: archi, guglie, finestre che occhieggiano sul nulla, e steli in gran parte abbattute che sembrano sentinelle...
Sul fondo, i resti infranti di un grande tavolo di pietra, che un tempo era circondato da lunghe file di scranni e sedili, e da un trono maestoso.
Dolina dei Druidi di Fernetti |
Le rovine ci lasciano intuire un passato ancor più suggestivo; ed infatti in giro per la rete, troviamo immagini spettacolari:
La Dolina dei Druidi così come si presentava alla fine degli anni '60
(foto di Rofizal - forum Atrieste)
(foto: Spifferi di Trieste )
Tanto si è scritto in questi ultimi tempi su questa dolina che, abbandonata e dimenticata nel mondo reale, sembra esser stata di recente riscoperta nel mondo virtuale di internet... la descrizione più struggente e suggestiva lo troviamo nel blog Spifferi di Trieste, nel post Dolina Dolens... ma c'è anche un gruppo in Facebook che si chiede chi sia stato a costruirla... e la stessa domanda anche nel Forum ATrieste...
Le ipotesi che sono girate nel corso degli anni sono le più varie e folli: scenografia per un film, tempio per messe nere, tempio nazista... beh, nulla di tutto ciò.
Effettivamente, delle messe nere vi furono senz'altro celebrate: il rinvenimento sia pur sporadico di resti di candele nere, carcasse di polli e parafernalia vari lascia poco spazio a dubbi in proposito... ma non era certo nelle intenzioni del costruttore.
Come pure la dolina fu sede di moltissimi likoff: anche qui, il rinvenimento tutt'altro che sporadico di lattine di birra, di resti di falò e pantagrueliche grigliate non lascia proprio alcun spazio ad eventuali dubbi. Ma anche questo, penso, non era nelle intenzioni del costruttore.
E quindi?
La spiegazione certa sulla sua origine ce la dà Dante Cannarella, in "Leggende del Carso Triestino" (ed. Italo Svevo, 2004). Dante Cannarella ci racconta che negli anni '50 un "commerciante triestino" acquistò un vasto appezzamento di terreno (quasi un centinaio di ettari), e fece edificare da un contadino del luogo le bizzarre costruzioni.
Il commerciante riteneva quel luogo abitato dall'antico popolo dei Druidi, guidati da un saggio re. Gli obelischi eretti lungo la strada erano i suoi guerrieri, trasformati in pietra. Il popolo dei Druidi si era nascosto nelle grotte, in attesa del giorno in cui gli uomini avranno finito di distruggersi a vicenda...
Quando il sognatore artefice di tutto ciò morì, la struttura finì in abbandono, e pochi anni dopo fu sfiorata dal cantiere del nuovo autoporto, che la risparmiò per pochi metri...
Di solito, scoprire il fondamento di verità che sta alle basi di una leggenda significa smitizzarla e distruggerla. In questo caso non è così: la Dolina dei Druidi fu costruita da un romantico sognatore, e fu la realizzazione di un sogno... fu realizzata con passione e con amore, inseguendo un mito tra le aspre rocce del Carso.
Averne scoperto quindi la vera storia non la smitizza affatto, ma anzi, le dona un fascino nuovo, più completo, superiore a quello che le dava la sola l'incertezza della sua origine...
Perchè, scoprendone la vera storia perdiamo i "si dice"... ma la meraviglia resta.
Oggi gran parte del terreno circostante è coperto dall'asfalto dell'autoporto, i sentieri ingombri di immondizia... il popolo dei Druidi si sarà nascosto ancor più profondamente, per fuggire a tale scempio. Ma non si nasconderà di certo a chi ha occhi per vederlo.
Quindi noi possiamo ancora sederci sui resti degli scranni, ascoltare il vento... e sognare.
domenica 18 ottobre 2009
le colonne di Aurisina
Sulla strada provinciale, tra Aurisina e Santa Croce, si trovano due grandi colonne di marmo, sovrastate dall’Alabarda.
Le colonne furono erette in onore dell’imperatore Francesco I d’Austria, che il 30 aprile 1816 transitò per Aurisina, nel suo viaggio da Gorizia e diretto a Trieste.
Su una delle colonne era iscritta un’epigrafe, oggi scomparsa:
IMPERATORI.ET.REGI.F.I.
TERGESTE.DIE.XX.M.APRIL.
A.MDCCCXVI
ADVENTVRO
CIVITAS.SVAM.IN.EVM.DEVOTIONEM
TESTARE.ANHELANS
AD.TERRITORY.LIMEN
MONUMENTUM.ISTUD
POSTERIS.TAM.FAVSTVM.DIEM
ENARRATVRVM
POSVIT
(evidentemente, la visita dell’imperatore avvenne con dieci giorni di ritardo rispetto alla data prevista…)TERGESTE.DIE.XX.M.APRIL.
A.MDCCCXVI
ADVENTVRO
CIVITAS.SVAM.IN.EVM.DEVOTIONEM
TESTARE.ANHELANS
AD.TERRITORY.LIMEN
MONUMENTUM.ISTUD
POSTERIS.TAM.FAVSTVM.DIEM
ENARRATVRVM
POSVIT
Nel secondo dopoguerra, a cura dei militari alleati, una colonna fu spostata per permettere l’allargamento della strada.
Nel 2003 le alabarde sovrastanti le colonne furono restaurate a cura dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste.
Pochi sanno che, poiché il confine tra i comuni di Trieste ed Aurisina corre lungo la strada provinciale, accade che la colonna di sinistra (per chi proviene da Santa Croce) appartiene al Comune di Trieste, mentre quella di destra appartiene invece al Comune di Duino Aurisina.
Il 18 dicembre 2006, in seguito ad un incidente stradale, venne abbattuta la colonna di sinistra (ovvero quella di proprietà del Comune di Trieste). Nei giorni successivi vi fu un tentativo di furto del “melone”, ovvero della grossa sfera di marmo che sovrastava la colonna rovinata, e che giaceva a terra assieme agli altri resti della colonna. La sfera di marmo fu però fortunatamente ritrovata poco distante, occultata sotto rami e foglie. Venne quindi recuperata con un mezzo della Protezione Civile di Duino Aurisina, e custodita fino al restauro, che si concluse appena nel settembre 2007.
Il colpo d’occhio delle due colonne è oggi rovinato da un lampione, infelicemente posizionato proprio a ridosso delle stesse.
Aggiornamento di gennaio 2010: è stato installato un nuovo impianto di lluminazione delle colonne, che le valorizza sensibilmente. Avvicinandosi di notte ad Aurisina lungo la strada provinciale, il colpo d'occhio è notevole...
(fonte: Il Piccolo 14/1/2010)
mercoledì 16 settembre 2009
Le bombe a mano (racconto)
Il Carso è terra di uomini, e quindi è anche terra di Storie.
E vi sono Storie grandi e Storie piccole; e quelle che si tramandano, e magari si studiano a scuola, sono le Storie grandi; ma per ogni Storia grande ci sono cento, mille piccole Storie; e non è detto che non valgano la pena di esser raccontate.
Questa è una piccola Storia. E, come tutte le piccole Storie (ma anche qualcuna delle grandi) è nata, è corsa di bocca in bocca, ed è sopravvissuta solo nella memoria di qualcuno. Quindi, non sappiamo se è andata proprio così... ma potrebbe, e tanto ci basta.
Negli anni '60 e '70 il Carso era molto frequentato da piccoli gruppi di speleologi (o “grottisti”, come amavano definirsi): esperti, meno esperti, giovani cani sciolti, esploravano e riesploravano grotte note, si arrampicavano alla ricerca di rami nascosti, scavavano e si infilavano in stretti budelli alla ricerca di nuove cavità. Raramente muniti di attrezzature adeguate, quasi sempre dotati di attrezzi artigianali (se non addirittura improvvisati), quello che animava quei giovani era lo spirito dei pionieri. Ed erano tanti che, armati di corda e lampada a carburo, riscoprivano così il fascino dell'avventura alle porte di casa.
Un'estate accadde che un gruppo di giovani speleologi, esplorando una grotta nei dintorni di Aurisina, fece una scoperta in quegli anni invero abbastanza frequente: vi trovò due bombe a mano, residuati bellici; si trattava di bombe a mano tedesche, le “Stielhandgranate”, ma comunemente chiamate “schiacciapatate” per il caratteristico manico in legno.
Possiamo immaginare l'eccitazione che tale scoperta causò nei giovani: chi avrebbe voluto portarsele a casa, chi suggeriva di provare a tirarle “per vedere se funzionavano ancora” (e perché non avrebbero dovuto? Erano in ottime condizioni...), chi nasconderle nuovamente, quasi fossero un piccolo tesoro...
Ma quelli erano ancora gli anni in cui, ogni primavera, venivano affissi tristissimi manifesti, che ritraevano bambini orrendamente mutilati, e che ammonivano a non toccare i residuati bellici. Quindi il ragazzo più grande della compagnia (forse solo un po' meno incosciente degli altri), prese la decisione più saggia: avvertire i carabinieri.
Gli altri ragazzi si dileguarono alla chetichella; lui invece si avviò di buon passo alla caserma dei carabinieri di Aurisina, che distava pochi chilometri. (Eh si: anche se parliamo di poco più di trent'anni fa, all'epoca il mezzo più diffuso per muoversi in Carso erano ancora i piedi; ed una passeggiata di pochi chilometri non spaventava nessuno).
Giuntovi, si presentò al militare di guardia, spiegandogli di aver rinvenuto due bombe a mano in una grotta nelle vicinanze.
Il militare lo accompagnò in una stanza, ove sedette ad una scrivania, rovistò in un cassetto, e vi estrasse la carta topografica della zona, che dispiegò cerimoniosamente sul tavolo.
“Dunque, lei avrebbe trovato due bombe a mano in una grotta... e dove sarebbe questa grotta?”
Il ragazzo si chinò sulla carta per studiarla, e quindi indicò un punto:
“Ecco, vicino a questo incrocio parte un sentiero... seguendolo, dopo questa curva bisogna superare un muretto, e nella seconda dolina si trova la grotta...”
Il militare guardò la mappa poco convinto:
“Ma lì non è segnata nessuna grotta!”
“E grazie! Se pensa di trovare sulla sua carta tutte le grotte del Carso, stiamo freschi! Sono più di duemila, ed a segnarle tutte sulla sua mappa ne verrebbe fuori una macchia unica! Lì ne trova segnate poche, solo le più importanti...”
Il militare lo guardò di sottecchi, infastidito dalla lezione non richiesta.
“Ed in questa grotta allora ci sarebbero due bombe a mano...”
“Ah no, non più” - lo interruppe il ragazzo - “le bombe a mano sono qui!”
E così dicendo le estrasse dal tascapane, e le posò al centro del tavolo, proprio sopra la carta topografica.
Il militare strabuzzò gli occhi, sorpreso e spaventato, e si buttò istintivamente all'indietro. Ma così facendo perse l'equilibrio e, mulinando le braccia cercando di riguadagnarlo, si afferrò alla mappa. Un attimo dopo era a terra assieme alla sedia, alla carta e ad una delle due bombe...
L'ufficiale che accorse, richiamato dal frastuono (oltre che dalle imprecazioni urlate dal militare), si divertì molto alle spiegazioni dell'accaduto, e congedò il ragazzo con una risata ed una stretta di mano.
Le bombe a mano, infine, furono fatte brillare dagli artificieri parecchio tempo dopo, assieme ad altri residuati rinvenuti sul Carso nel frattempo.
Molte altre, purtroppo, non fecero la stessa fine; ed in alcuni casi resero reali le immagini da incubo dei manifesti che ammonivano: “NON RACCOGLIETELE!”
E vi sono Storie grandi e Storie piccole; e quelle che si tramandano, e magari si studiano a scuola, sono le Storie grandi; ma per ogni Storia grande ci sono cento, mille piccole Storie; e non è detto che non valgano la pena di esser raccontate.
Questa è una piccola Storia. E, come tutte le piccole Storie (ma anche qualcuna delle grandi) è nata, è corsa di bocca in bocca, ed è sopravvissuta solo nella memoria di qualcuno. Quindi, non sappiamo se è andata proprio così... ma potrebbe, e tanto ci basta.
Negli anni '60 e '70 il Carso era molto frequentato da piccoli gruppi di speleologi (o “grottisti”, come amavano definirsi): esperti, meno esperti, giovani cani sciolti, esploravano e riesploravano grotte note, si arrampicavano alla ricerca di rami nascosti, scavavano e si infilavano in stretti budelli alla ricerca di nuove cavità. Raramente muniti di attrezzature adeguate, quasi sempre dotati di attrezzi artigianali (se non addirittura improvvisati), quello che animava quei giovani era lo spirito dei pionieri. Ed erano tanti che, armati di corda e lampada a carburo, riscoprivano così il fascino dell'avventura alle porte di casa.
Un'estate accadde che un gruppo di giovani speleologi, esplorando una grotta nei dintorni di Aurisina, fece una scoperta in quegli anni invero abbastanza frequente: vi trovò due bombe a mano, residuati bellici; si trattava di bombe a mano tedesche, le “Stielhandgranate”, ma comunemente chiamate “schiacciapatate” per il caratteristico manico in legno.
Possiamo immaginare l'eccitazione che tale scoperta causò nei giovani: chi avrebbe voluto portarsele a casa, chi suggeriva di provare a tirarle “per vedere se funzionavano ancora” (e perché non avrebbero dovuto? Erano in ottime condizioni...), chi nasconderle nuovamente, quasi fossero un piccolo tesoro...
Ma quelli erano ancora gli anni in cui, ogni primavera, venivano affissi tristissimi manifesti, che ritraevano bambini orrendamente mutilati, e che ammonivano a non toccare i residuati bellici. Quindi il ragazzo più grande della compagnia (forse solo un po' meno incosciente degli altri), prese la decisione più saggia: avvertire i carabinieri.
Gli altri ragazzi si dileguarono alla chetichella; lui invece si avviò di buon passo alla caserma dei carabinieri di Aurisina, che distava pochi chilometri. (Eh si: anche se parliamo di poco più di trent'anni fa, all'epoca il mezzo più diffuso per muoversi in Carso erano ancora i piedi; ed una passeggiata di pochi chilometri non spaventava nessuno).
Giuntovi, si presentò al militare di guardia, spiegandogli di aver rinvenuto due bombe a mano in una grotta nelle vicinanze.
Il militare lo accompagnò in una stanza, ove sedette ad una scrivania, rovistò in un cassetto, e vi estrasse la carta topografica della zona, che dispiegò cerimoniosamente sul tavolo.
“Dunque, lei avrebbe trovato due bombe a mano in una grotta... e dove sarebbe questa grotta?”
Il ragazzo si chinò sulla carta per studiarla, e quindi indicò un punto:
“Ecco, vicino a questo incrocio parte un sentiero... seguendolo, dopo questa curva bisogna superare un muretto, e nella seconda dolina si trova la grotta...”
Il militare guardò la mappa poco convinto:
“Ma lì non è segnata nessuna grotta!”
“E grazie! Se pensa di trovare sulla sua carta tutte le grotte del Carso, stiamo freschi! Sono più di duemila, ed a segnarle tutte sulla sua mappa ne verrebbe fuori una macchia unica! Lì ne trova segnate poche, solo le più importanti...”
Il militare lo guardò di sottecchi, infastidito dalla lezione non richiesta.
“Ed in questa grotta allora ci sarebbero due bombe a mano...”
“Ah no, non più” - lo interruppe il ragazzo - “le bombe a mano sono qui!”
E così dicendo le estrasse dal tascapane, e le posò al centro del tavolo, proprio sopra la carta topografica.
Il militare strabuzzò gli occhi, sorpreso e spaventato, e si buttò istintivamente all'indietro. Ma così facendo perse l'equilibrio e, mulinando le braccia cercando di riguadagnarlo, si afferrò alla mappa. Un attimo dopo era a terra assieme alla sedia, alla carta e ad una delle due bombe...
L'ufficiale che accorse, richiamato dal frastuono (oltre che dalle imprecazioni urlate dal militare), si divertì molto alle spiegazioni dell'accaduto, e congedò il ragazzo con una risata ed una stretta di mano.
Le bombe a mano, infine, furono fatte brillare dagli artificieri parecchio tempo dopo, assieme ad altri residuati rinvenuti sul Carso nel frattempo.
Molte altre, purtroppo, non fecero la stessa fine; ed in alcuni casi resero reali le immagini da incubo dei manifesti che ammonivano: “NON RACCOGLIETELE!”
giovedì 10 settembre 2009
La leggenda delle due sorelle
Tutti conoscono la leggenda della Dama Bianca, legata al bianco scoglio sotto al castello di Duino; pochi invece conoscono la suggestiva (ed altrettanto triste) leggenda delle due sorelle, legata a due scogli gemelli che si trovano sulla costa rocciosa, tra Canovella de' Zoppoli e la Baia di Sistiana.
Secondo questa leggenda due sorelle, che percorrevano il sentiero lungo la costa, un giorno di tempesta sarebbero state fatte precipitare in mare da un'onda gigantesca; e quindi si sarebbero trasformate nella caratteristica coppia di scogli.
La leggenda fu narrata in una poesia dalla Principessa Teresa Maria Beatrice della Torre-Hofer-Valsassina (1817-1893), castellana di Duino. Riscopriamola quindi nei suoi versi:
Dell'alta costa - al piè giacenti,
In nivea tinta, - qual per incanto,
Quasi fantasmi - dal mar sporgenti,
Vedi due massi - l'un l'altro accanto
Sbattuti e rosi - dall'onde felle;
Sono due scogli - e fur sorelle.
Antica voce - narra, che a sera
Ognor tornando, - due giovanette
Lievi moveano - sulla riviera,
Il mar fissando - mute e solette.
Eran sì bianche - eran sì belle!
Né mai disgiunte; - eran sorelle.
Qual fu la speme, - quale il desio
Sempre deluso - che in lor ardea?
Che avvinte insieme - su quel pendio
All'orlo estremo - ahi, le traea?
Noto al mar forse - ed alle stelle
Era il mistero - delle sorelle.
Ma un dì che furo - all'irta sponda,
Sempre aspettando - chi non venia,
Un nembo surse - e giù nell'onda
Insiem travolte - se le rapia!
Giacquero immote - le poverelle
Unite sempre - perché sorelle.
Ed ora, quando - il firmamento
Pallido fassi - e il sol s'adima,
Nel mar tuffandosi - già sonnolento,
Delle due rupi - sull'ardua cima
Brillan cerulee - doppie fiammelle;
Sono gli spiriti - delle sorelle.
Deposto il remo - il pio nocchiero,
Con gli occhi fisi - e ai lumi intenti,
Volge pietoso - il suo pensiero
Alla memoria - delle innocenti,
Pace pregando - alle sorelle;
In vita e in morte - sempre gemelle.
Secondo questa leggenda due sorelle, che percorrevano il sentiero lungo la costa, un giorno di tempesta sarebbero state fatte precipitare in mare da un'onda gigantesca; e quindi si sarebbero trasformate nella caratteristica coppia di scogli.
La leggenda fu narrata in una poesia dalla Principessa Teresa Maria Beatrice della Torre-Hofer-Valsassina (1817-1893), castellana di Duino. Riscopriamola quindi nei suoi versi:
Dell'alta costa - al piè giacenti,
In nivea tinta, - qual per incanto,
Quasi fantasmi - dal mar sporgenti,
Vedi due massi - l'un l'altro accanto
Sbattuti e rosi - dall'onde felle;
Sono due scogli - e fur sorelle.
Antica voce - narra, che a sera
Ognor tornando, - due giovanette
Lievi moveano - sulla riviera,
Il mar fissando - mute e solette.
Eran sì bianche - eran sì belle!
Né mai disgiunte; - eran sorelle.
Qual fu la speme, - quale il desio
Sempre deluso - che in lor ardea?
Che avvinte insieme - su quel pendio
All'orlo estremo - ahi, le traea?
Noto al mar forse - ed alle stelle
Era il mistero - delle sorelle.
Ma un dì che furo - all'irta sponda,
Sempre aspettando - chi non venia,
Un nembo surse - e giù nell'onda
Insiem travolte - se le rapia!
Giacquero immote - le poverelle
Unite sempre - perché sorelle.
Ed ora, quando - il firmamento
Pallido fassi - e il sol s'adima,
Nel mar tuffandosi - già sonnolento,
Delle due rupi - sull'ardua cima
Brillan cerulee - doppie fiammelle;
Sono gli spiriti - delle sorelle.
Deposto il remo - il pio nocchiero,
Con gli occhi fisi - e ai lumi intenti,
Volge pietoso - il suo pensiero
Alla memoria - delle innocenti,
Pace pregando - alle sorelle;
In vita e in morte - sempre gemelle.
domenica 6 settembre 2009
grotte perdute del Carso triestino
La mia affermazione che in Carso vi sarebbero diverse "grotte perdute" (ovvero scoperte, rilevate ed accatastate, e mai più ritrovate) ha suscitato un po' di curiosità...
Ed effettivamente perdere una grotta non è proprio come perdere gli occhiali o le chiavi, e spesso si tratta di storie curiose...
Comincio dalla già citata 172/VG887 - Grotta nera di Prepotto
Fu scoperta nel 1892 da Andrea Perko che (dopo la scoperta delle sepolture nella vicina caverna Moser), cominciò una serie di esplorazioni sistematiche della zona alla ricerca di altre grotte di interesse archeologico.
Secondo le indicazioni del Perko, la Grotta Nera si trovava circa ad un chilometro dalla Grotta Noè (23/90VG) e che tra questa e la Grotta Nera si apriva la Caverna Moser (476/1096VG).
La grotta fu descritta come una lunga galleria ricca di formazioni calcitiche cristalline e di bacini d'acqua, che terminava con un corridoio ascendente impraticabile, dal quale, al tempo delle esplorazioni, usciva una forte corrente d'aria. L'imbocco era situato sul lato Ovest di una piccola dolina ed aveva la forma di un ferro da stiro, con una lunghezza di 1.7m.
Dopo la prima guerra mondiale, non si riuscì più a trovare tale cavità, nonostante generazioni di speleologi abbiano meticolosamente battuto la zona, alla ricerca dei più piccoli indizi...
Le ipotesi sono tante.
La più probabile è che, nel corso della prima guerra mondiale, sia stata adattata a rifugio dagli austro-ungarici. Magari l'ingresso è stato modificato e cementato e, al termine del conflitto, deliberatamente ostruito.
Un'altra ipotesi è quella dell'errore macroscopico nel rilievo della posizione; la grotta quindi, ancorchè perduta, si troverebbe ben lontana dalla posizione indicata dal Perko.
Un'altra ipotesi (ma sconfiniamo nella leggenda) vuole che sia stata usata come nascondiglio dai partigiani durante la seconda guerra mondiale, e fatta quindi saltare per cause belliche...
Un'altra interessante "grotta perduta" è la VG2287 - Abisso III di Gropada
Esplorato nel 1924 dalla XXX Ottobre, rilevato da Cesare Prez, e da allora scomparso.
L'aspetto curioso è che, nel corso delle ricerche di questa "grotta perduta" Federico Deponte, nel 2004, rinvenne un'altra cavità di tutto rispetto, battezzata "Abisso IV di Gropada" (7067/6364VG)
680 / VG3732 - Grotta a Nord Est di Ceroglie
E' una piccola grotta (complessivamente 12 m di sviluppo), descritta semplicemente come un piccolo pozzo, dalle pareti irregolari, che sbocca in una breve galleria, addattata a ricovero militare durante la prima guerra mondiale.
Possiamo tranquillamente applicare anche a questa le leggende della "Grotta Nera" che la vollero rifugio di partigiani, occlusa per cause belliche...
Vi sono poi molte cavità minori che, probabilmente, non sono ancora state dichiarate "perdute" solo perchè nessuno si è preso ancora la briga di cercarle... ad esempio, sembra introvabile la GROTTA PRESSO AURISINA (745/3912VG).
Sembra che, da svariati anni, nessuno sia riuscito a trovarla... men che meno io. Volete provare voi?
Ed effettivamente perdere una grotta non è proprio come perdere gli occhiali o le chiavi, e spesso si tratta di storie curiose...
Comincio dalla già citata 172/VG887 - Grotta nera di Prepotto
Fu scoperta nel 1892 da Andrea Perko che (dopo la scoperta delle sepolture nella vicina caverna Moser), cominciò una serie di esplorazioni sistematiche della zona alla ricerca di altre grotte di interesse archeologico.
Secondo le indicazioni del Perko, la Grotta Nera si trovava circa ad un chilometro dalla Grotta Noè (23/90VG) e che tra questa e la Grotta Nera si apriva la Caverna Moser (476/1096VG).
La grotta fu descritta come una lunga galleria ricca di formazioni calcitiche cristalline e di bacini d'acqua, che terminava con un corridoio ascendente impraticabile, dal quale, al tempo delle esplorazioni, usciva una forte corrente d'aria. L'imbocco era situato sul lato Ovest di una piccola dolina ed aveva la forma di un ferro da stiro, con una lunghezza di 1.7m.
Dopo la prima guerra mondiale, non si riuscì più a trovare tale cavità, nonostante generazioni di speleologi abbiano meticolosamente battuto la zona, alla ricerca dei più piccoli indizi...
Le ipotesi sono tante.
La più probabile è che, nel corso della prima guerra mondiale, sia stata adattata a rifugio dagli austro-ungarici. Magari l'ingresso è stato modificato e cementato e, al termine del conflitto, deliberatamente ostruito.
Un'altra ipotesi è quella dell'errore macroscopico nel rilievo della posizione; la grotta quindi, ancorchè perduta, si troverebbe ben lontana dalla posizione indicata dal Perko.
Un'altra ipotesi (ma sconfiniamo nella leggenda) vuole che sia stata usata come nascondiglio dai partigiani durante la seconda guerra mondiale, e fatta quindi saltare per cause belliche...
Un'altra interessante "grotta perduta" è la VG2287 - Abisso III di Gropada
Esplorato nel 1924 dalla XXX Ottobre, rilevato da Cesare Prez, e da allora scomparso.
L'aspetto curioso è che, nel corso delle ricerche di questa "grotta perduta" Federico Deponte, nel 2004, rinvenne un'altra cavità di tutto rispetto, battezzata "Abisso IV di Gropada" (7067/6364VG)
680 / VG3732 - Grotta a Nord Est di Ceroglie
E' una piccola grotta (complessivamente 12 m di sviluppo), descritta semplicemente come un piccolo pozzo, dalle pareti irregolari, che sbocca in una breve galleria, addattata a ricovero militare durante la prima guerra mondiale.
Possiamo tranquillamente applicare anche a questa le leggende della "Grotta Nera" che la vollero rifugio di partigiani, occlusa per cause belliche...
Vi sono poi molte cavità minori che, probabilmente, non sono ancora state dichiarate "perdute" solo perchè nessuno si è preso ancora la briga di cercarle... ad esempio, sembra introvabile la GROTTA PRESSO AURISINA (745/3912VG).
Sembra che, da svariati anni, nessuno sia riuscito a trovarla... men che meno io. Volete provare voi?
venerdì 4 settembre 2009
Cose ignote ha il paese natale anche a chi lo crede più noto
Questa citazione di Silvio Benco è diventata un po’ il motto di questo blog.
Infatti uno degli aspetti più sorprendenti del Carso è la possibilità che, a pochi passi dal sentiero che ci è familiare, si celi qualcosa di sconosciuto ed inaspettato. Spesso basta fare pochi passi per trovare grotte, o testimonianze storiche più o meno antiche, tracce degli animali più vari, curiosità botaniche,… l’importante è avere il coraggio di abbandonare il sentiero (1), e sviluppare un certo “naso” per decidere dove abbandonarlo… e anche, perché no, un certo “occhio” per saper individuare quanto vi è di interessante in mezzo alla mimetizzazione naturale della vegetazione. E avere, ovviamente, anche un pizzico di fortuna.
E se può esser facilissimo scoprire qualcosa per caso, può rivelarsi impossibile o quasi cercare qualcosa di specifico, senza avere indicazioni più che precise su cosa e dove cercare… a qualsiasi speleologo sarà capitato di perdere intere giornate a ricercare una certa grotta, pur avendo indicazioni precise su dove cercarla… e poi magari rinunciarci. Per tornarci poi con la guida di qualche amico che, solo per esserci già stato, lo condurrà a colpo sicuro, mostrandogli l’ingresso subito dietro a quel certo cespuglio già inutilmente ispezionato il giorno prima…
Ci sono storie di grotte scoperte (anche un secolo fa), rilevate, iscritte al catasto… e mai più ritrovate.
Ad esempio, la "Grotta Nera di Prepotto" (172/887 VG) fu scoperta e rilevata nel 1892. Era anche di notevoli dimensioni (92 metri di sviluppo e 27 di profondità), l'ingresso ben descritto, ben descritta la dolina in cui si trovava... cionondimeno, fu probabilmente ostruita durante la prima guerra mondiale, e nessuno da allora fu capace di ritrovarla, nonostante generazioni di speleologi abbiano battuto la zona palmo a palmo...
Vi è una leggenda, che vorrebbe ci sia un carro armato tedesco della seconda guerra mondiale, abbandonato in mezzo alla vegetazione in uno dei valloni dietro al Faro della Vittoria… Sarà vero? Io personalmente non l’ho mai trovato, ma ho battuto la zona e, data la vegetazione (più folta che non una jungla vietnamita), potrebbero essercene anche 10, di carri armati…
Un esempio valido a questo proposito è il segnale fisso di mira del monte Gurca: quante volte mi è capitato di passarne a pochi metri di distanza, senza accorgermi della sua presenza?
Ma anche Dante Cannarella, ad esempio, scriveva nel 1975 nella sua “Guida del Carso Triestino”:
Mi si dice che alle falde del Monte Lanaro, vicino al poligono di tiro, ci sia un’altra dolina-laghetto; ma io non sono riuscito a trovarla: chi sa che non riusciate a trovarla voi! E’ proprio questo il divertimento.
Ebbene, questo stagno, invano cercato da Cannarella, io lo trovai quasi subito… ma non me ne faccio assolutamente un vanto, perché accadde per puro caso; e potrei citare altre dozzine di casi in cui invece (nonostante le indicazioni più o meno precise) mi è capitato di non trovare quanto cercato… Ovviamente adesso che so dov’è questo stagno, arrivarci è semplicissimo (e spero che Cannarella, negli ultimi trent’anni, abbia trovato qualcuno capace di condurcelo…)
(Siete curiosi di sapere dove sia questo stagno, e non avete voglia di cercarvelo? Vabbeh, se proprio volete rovinarvi il divertimento, è qui:
Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori
(1) Il sentiero va abbandonato ovviamente con la dovuta prudenza: oltre a svariate centinaia di grotte, foibe ed inghiottitoi (nessuno dei quali transennato o segnalato), il terreno carsico è disseminato di innumerevoli buche, trincee e “bocche di lupo” – ottimamente celate, spesso, dalla vegetazione. Sorprendentemente, gli incidenti causati da tutte queste asperità sono stati pochissimi… a memoria d’uomo, non si ricorda ad esempio nessuna caduta accidentale di escursionisti in foibe o abissi. Per cortesia, cerchiamo di conservare tale tradizione…
Infatti uno degli aspetti più sorprendenti del Carso è la possibilità che, a pochi passi dal sentiero che ci è familiare, si celi qualcosa di sconosciuto ed inaspettato. Spesso basta fare pochi passi per trovare grotte, o testimonianze storiche più o meno antiche, tracce degli animali più vari, curiosità botaniche,… l’importante è avere il coraggio di abbandonare il sentiero (1), e sviluppare un certo “naso” per decidere dove abbandonarlo… e anche, perché no, un certo “occhio” per saper individuare quanto vi è di interessante in mezzo alla mimetizzazione naturale della vegetazione. E avere, ovviamente, anche un pizzico di fortuna.
E se può esser facilissimo scoprire qualcosa per caso, può rivelarsi impossibile o quasi cercare qualcosa di specifico, senza avere indicazioni più che precise su cosa e dove cercare… a qualsiasi speleologo sarà capitato di perdere intere giornate a ricercare una certa grotta, pur avendo indicazioni precise su dove cercarla… e poi magari rinunciarci. Per tornarci poi con la guida di qualche amico che, solo per esserci già stato, lo condurrà a colpo sicuro, mostrandogli l’ingresso subito dietro a quel certo cespuglio già inutilmente ispezionato il giorno prima…
Ci sono storie di grotte scoperte (anche un secolo fa), rilevate, iscritte al catasto… e mai più ritrovate.
Ad esempio, la "Grotta Nera di Prepotto" (172/887 VG) fu scoperta e rilevata nel 1892. Era anche di notevoli dimensioni (92 metri di sviluppo e 27 di profondità), l'ingresso ben descritto, ben descritta la dolina in cui si trovava... cionondimeno, fu probabilmente ostruita durante la prima guerra mondiale, e nessuno da allora fu capace di ritrovarla, nonostante generazioni di speleologi abbiano battuto la zona palmo a palmo...
Vi è una leggenda, che vorrebbe ci sia un carro armato tedesco della seconda guerra mondiale, abbandonato in mezzo alla vegetazione in uno dei valloni dietro al Faro della Vittoria… Sarà vero? Io personalmente non l’ho mai trovato, ma ho battuto la zona e, data la vegetazione (più folta che non una jungla vietnamita), potrebbero essercene anche 10, di carri armati…
Un esempio valido a questo proposito è il segnale fisso di mira del monte Gurca: quante volte mi è capitato di passarne a pochi metri di distanza, senza accorgermi della sua presenza?
Ma anche Dante Cannarella, ad esempio, scriveva nel 1975 nella sua “Guida del Carso Triestino”:
Mi si dice che alle falde del Monte Lanaro, vicino al poligono di tiro, ci sia un’altra dolina-laghetto; ma io non sono riuscito a trovarla: chi sa che non riusciate a trovarla voi! E’ proprio questo il divertimento.
Ebbene, questo stagno, invano cercato da Cannarella, io lo trovai quasi subito… ma non me ne faccio assolutamente un vanto, perché accadde per puro caso; e potrei citare altre dozzine di casi in cui invece (nonostante le indicazioni più o meno precise) mi è capitato di non trovare quanto cercato… Ovviamente adesso che so dov’è questo stagno, arrivarci è semplicissimo (e spero che Cannarella, negli ultimi trent’anni, abbia trovato qualcuno capace di condurcelo…)
(Siete curiosi di sapere dove sia questo stagno, e non avete voglia di cercarvelo? Vabbeh, se proprio volete rovinarvi il divertimento, è qui:
Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori
(1) Il sentiero va abbandonato ovviamente con la dovuta prudenza: oltre a svariate centinaia di grotte, foibe ed inghiottitoi (nessuno dei quali transennato o segnalato), il terreno carsico è disseminato di innumerevoli buche, trincee e “bocche di lupo” – ottimamente celate, spesso, dalla vegetazione. Sorprendentemente, gli incidenti causati da tutte queste asperità sono stati pochissimi… a memoria d’uomo, non si ricorda ad esempio nessuna caduta accidentale di escursionisti in foibe o abissi. Per cortesia, cerchiamo di conservare tale tradizione…
venerdì 28 agosto 2009
stelle e castellieri...
Il Castelliere di Elleri al chiaro di luna, tra astri e archeologia. Sarà possibile visitarlo, in questa insolita veste, lunedì prossimo, nel corso di una particolare iniziativa: una passeggiata notturna, aperta al pubblico, destinata alla lettura della volta celeste e inserita nell'ambito delle iniziative dell'Anno internazionale dell'astronomia.
Ad organizzarla è il Comune di Muggia in collaborazione con l'Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e l'Osservatorio astronomico di Trieste, con la partecipazione di Divulgando, che per questo evento hanno scelto il Castelliere e il suo percorso turistico-didattico.
Inaugurato lo scorso 16 giugno, il percorso, a partire dalle 21 di luned’ sarà la meta di una passeggiata che permetterà - grazie all'intervento dell'archeologa Chiara Boscarol e dell'astronomo Mauro Messerotti - di ”leggere” l'antico insediamento in cui sono riconoscibili più fasi, dall'età del bronzo all'epoca romana, e il cielo stellato, immaginandolo anche come poteva apparire nell'antichità.
Dopo una prima spiegazione dell'origine del castelliere e della sua contestualizzazione nel territorio, del quale rimase per quasi 2.000 anni un essenziale punto nevralgico, si esploreranno le vestigia più antiche fino ad arrivare a quelle di epoca romana.
Spente le torce, verranno individuati a occhio nudo stelle e pianeti del nostro emisfero. Lasciando alle spalle il sito archeologico, nel corso della discesa lo sguardo dei partecipanti potrà spaziare su un orizzonte più vasto, permettendo di individuare ulteriori costellazioni.
Il ritrovo è fissato per le 21 presso la chiesetta di Santa Barbara. E' consigliato un abbigliamento sportivo, ma soprattutto si raccomanda di portare con sè una torcia personale.
Per ulteriori informazioni ci si può rivolgere all’Ufficio cultura e promozione del Comune di Muggia (tel. 0403360340, ufficio.cultura@comunedimuggia.ts.it).
(fonte: informaTrieste!)
Ad organizzarla è il Comune di Muggia in collaborazione con l'Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e l'Osservatorio astronomico di Trieste, con la partecipazione di Divulgando, che per questo evento hanno scelto il Castelliere e il suo percorso turistico-didattico.
Inaugurato lo scorso 16 giugno, il percorso, a partire dalle 21 di luned’ sarà la meta di una passeggiata che permetterà - grazie all'intervento dell'archeologa Chiara Boscarol e dell'astronomo Mauro Messerotti - di ”leggere” l'antico insediamento in cui sono riconoscibili più fasi, dall'età del bronzo all'epoca romana, e il cielo stellato, immaginandolo anche come poteva apparire nell'antichità.
Dopo una prima spiegazione dell'origine del castelliere e della sua contestualizzazione nel territorio, del quale rimase per quasi 2.000 anni un essenziale punto nevralgico, si esploreranno le vestigia più antiche fino ad arrivare a quelle di epoca romana.
Spente le torce, verranno individuati a occhio nudo stelle e pianeti del nostro emisfero. Lasciando alle spalle il sito archeologico, nel corso della discesa lo sguardo dei partecipanti potrà spaziare su un orizzonte più vasto, permettendo di individuare ulteriori costellazioni.
Il ritrovo è fissato per le 21 presso la chiesetta di Santa Barbara. E' consigliato un abbigliamento sportivo, ma soprattutto si raccomanda di portare con sè una torcia personale.
Per ulteriori informazioni ci si può rivolgere all’Ufficio cultura e promozione del Comune di Muggia (tel. 0403360340, ufficio.cultura@comunedimuggia.ts.it).
(fonte: informaTrieste!)
domenica 16 agosto 2009
Stazione di Aurisina - 16 agosto 1917
La Stazione di Aurisina (da non confondersi con la stazioncina di Bivio d'Aurisina) ha oggi l'aspetto melanconico di un'anziana nobildonna decaduta.
Fu eretta nel 1857 a servizio della Sudbahn, o I.R. Ferrovia Meridionale, che collegava Trieste con Lubiana, e per molti anni costituì uno dei principali nodi ferroviari della zona.
Oggi la cerchereste inutilmente sugli orari, anche del più sperduto treno locale: è stata completamente abbandonata come stazione, e viene usata solo come deposito di attrezzature per la manutenzione delle linee ferroviarie; pochi treni vi transitano, senza mai fermarsi.
Data la sua importanza, e data la vicinanza al fronte, durante la prima guerra mondiale fu più volte obiettivo di bombardamenti: sia d'artiglieria, che aerei.
Particolarmente devastante fu il bombardamento del 16 agosto 1917, eseguito dalle artiglierie italiane che sparavano da dei pontoni (o "monitori") a Punta Sdobba.
Precisamente, a sparare quel giorno pare che fu il monitore "Faà di Bruno", della Regia Marina, con i suoi pezzi binati da 381 mm.
A ricordare questo episodio, una piccola lapide con la data, posta sulla facciata, sopra a quello che sembra un fiore di ferro; ma che altro non è che il rottame della granata che la colpì:
Quel piccolo fiore di ferro, che pare piccola cosa, quasi gentile, non può far capire la distruzione che portò. Vediamo, in una foto d'epoca, i danni che causò:
Fu eretta nel 1857 a servizio della Sudbahn, o I.R. Ferrovia Meridionale, che collegava Trieste con Lubiana, e per molti anni costituì uno dei principali nodi ferroviari della zona.
Oggi la cerchereste inutilmente sugli orari, anche del più sperduto treno locale: è stata completamente abbandonata come stazione, e viene usata solo come deposito di attrezzature per la manutenzione delle linee ferroviarie; pochi treni vi transitano, senza mai fermarsi.
Data la sua importanza, e data la vicinanza al fronte, durante la prima guerra mondiale fu più volte obiettivo di bombardamenti: sia d'artiglieria, che aerei.
Particolarmente devastante fu il bombardamento del 16 agosto 1917, eseguito dalle artiglierie italiane che sparavano da dei pontoni (o "monitori") a Punta Sdobba.
Precisamente, a sparare quel giorno pare che fu il monitore "Faà di Bruno", della Regia Marina, con i suoi pezzi binati da 381 mm.
A ricordare questo episodio, una piccola lapide con la data, posta sulla facciata, sopra a quello che sembra un fiore di ferro; ma che altro non è che il rottame della granata che la colpì:
Quel piccolo fiore di ferro, che pare piccola cosa, quasi gentile, non può far capire la distruzione che portò. Vediamo, in una foto d'epoca, i danni che causò:
giovedì 6 agosto 2009
Una strana storia di guerra...
Capita spesso che le cose più interessanti si scoprano mentre si sta (infruttuosamente) cercando tutt'altro...
Capita così spesso di ritrovare dimenticati cimeli di famiglia cercando gli addobbi natalizi in soffitta, oppure (più prosaicamente) di trovare il passaporto (che ormai si dava per disperso) mentre si sta cercando il contratto del proprio cellulare...
Così, mentre cercavo documenti e riscontri su tutt'altro (ed è ancora presto per dirvi l'oggetto delle mie ricerche... altrimenti vi rovino la sorpresa!) mi sono imbattuto in un curioso episodio di guerra, svoltosi nel Golfo di Trieste, ai piedi del Carso, nell'aprile del 1945.
Il 2 aprile 1945 il bombardiere B24 statunitense 44-41009, appartenente al 454th Bomb Group - 738th Bombardment Squadron stava rientrando alla base, al termine della propria missione. Giunto in prossimità di Trieste, scoppiò un incendio nel vano di carico delle bombe, e l'aereo fu costretto all'ammaraggio.
Un altro B-24 rimase a volare in circolo al di sopra del punto di ammaraggio, sia per difendere il gruppo di piloti superstiti, sia per favorire l'identificazione della posizione. Infine, giunse un idrovolante Catalina del 1st Emergency Rescue Squadron, ai comandi del cap. Milburn, che ammarò a fianco dei quattro superstiti e li recuperò. I corpi di due altri membri dell'equipaggio, deceduti, furono abbandonati e probabilmente recuperati in seguito.
Riporto dal diario di guerra (ovviamente in inglese):
Capt. Milburn and crew picked up four airmen from the 738th Bombardment Squadron, 454th B-24 Bomb Group. The bomb bay of a huge B-24 caught fire just off Trieste, and was forced to ditch. Another B-24 circled overhead until the Catalina arrived to make a landing.
Sergeants Perry L. Owens, Raymond A. Monahan, Richard J. Schmid, and
Flight Officer Howard C. Horton were taken aboard the Catalina and flown to Foggia. Two bodies were left behind for an H.S.L. to pick up.
L'episodio ebbe probabilmente più di un testimone da Trieste o dal ciglione carsico, tant'è che girarono in città parecchie voci a questo proposito... voci via via sempre più vaghe, fino a sfumare quasi nella leggenda...
Oggi, grazie alla massa di archivi disponibili più o meno liberamente e più o meno agevolmente in internet, riusciamo a reinquadrare questa leggenda all'interno della storia, e perfino a dare un volto ad uno dei protagonisti...
Capita così spesso di ritrovare dimenticati cimeli di famiglia cercando gli addobbi natalizi in soffitta, oppure (più prosaicamente) di trovare il passaporto (che ormai si dava per disperso) mentre si sta cercando il contratto del proprio cellulare...
Così, mentre cercavo documenti e riscontri su tutt'altro (ed è ancora presto per dirvi l'oggetto delle mie ricerche... altrimenti vi rovino la sorpresa!) mi sono imbattuto in un curioso episodio di guerra, svoltosi nel Golfo di Trieste, ai piedi del Carso, nell'aprile del 1945.
Il 2 aprile 1945 il bombardiere B24 statunitense 44-41009, appartenente al 454th Bomb Group - 738th Bombardment Squadron stava rientrando alla base, al termine della propria missione. Giunto in prossimità di Trieste, scoppiò un incendio nel vano di carico delle bombe, e l'aereo fu costretto all'ammaraggio.
Un altro B-24 rimase a volare in circolo al di sopra del punto di ammaraggio, sia per difendere il gruppo di piloti superstiti, sia per favorire l'identificazione della posizione. Infine, giunse un idrovolante Catalina del 1st Emergency Rescue Squadron, ai comandi del cap. Milburn, che ammarò a fianco dei quattro superstiti e li recuperò. I corpi di due altri membri dell'equipaggio, deceduti, furono abbandonati e probabilmente recuperati in seguito.
il cap. Walter B. Milburn (fonte: www.1st-7therspby.org)
Riporto dal diario di guerra (ovviamente in inglese):
Capt. Milburn and crew picked up four airmen from the 738th Bombardment Squadron, 454th B-24 Bomb Group. The bomb bay of a huge B-24 caught fire just off Trieste, and was forced to ditch. Another B-24 circled overhead until the Catalina arrived to make a landing.
Sergeants Perry L. Owens, Raymond A. Monahan, Richard J. Schmid, and
Flight Officer Howard C. Horton were taken aboard the Catalina and flown to Foggia. Two bodies were left behind for an H.S.L. to pick up.
L'episodio ebbe probabilmente più di un testimone da Trieste o dal ciglione carsico, tant'è che girarono in città parecchie voci a questo proposito... voci via via sempre più vaghe, fino a sfumare quasi nella leggenda...
Oggi, grazie alla massa di archivi disponibili più o meno liberamente e più o meno agevolmente in internet, riusciamo a reinquadrare questa leggenda all'interno della storia, e perfino a dare un volto ad uno dei protagonisti...
lunedì 27 luglio 2009
il "segnale fisso di mira" del monte Gurca
Da segnale fisso di mira del Monte Gurca |
Recentemente alcuni soci della Società Alpina delle Giulie hanno riscoperto un curioso manufatto sul Monte Gurca; si tratta di un “segnale fisso di mira”, ovvero di un punto fisso che materializzava il nord geografico per facilitare misure e rilievi astronomici.
Questo singolare manufatto non lo avevo mai visto prima d’oggi, anche se ne avevo già sentito parlare in passato; ma si trattava di voci vaghe, quasi di leggende, che non sapevano collocarlo con precisione né nello spazio né nel tempo: veniva definito vagamente come una colonna, un menhir, una stele o un cippo; chi diceva risalisse alla prima guerra mondiale, chi invece alla seconda, chi invece favoleggiava di celti e castellieri… mancavano solo le possibili origine atlantidee!
Data la vaghezza delle indicazioni, non ero mai riuscito a trovarlo; oggi, finalmente, ho scoperto che si trova a pochissimi metri da un sentiero ben noto, che ho percorso più e più volte...
Ai soci della SAG che lo hanno riscoperto va anche il merito di aver fatto luce sulla sua storia.
Nel 1883 Ferdinand Osnaghi (direttore dell’Accademia di Commercio e Nautica) richiese al Magistrato Civico l’autorizzazione a collocare “per scopi dell’osservatorio astronomico un segnale fisso di mira sulla cresta del monte in prossimità di Opicina”.
L’Accademia aveva infatti realizzato nel 1850 il primo osservatorio astronomico cittadino, e nel 1866 fu realizzata la specola sul tetto di palazzo Biserini (oggi sede della Biblioteca Civica, in piazza Hortis, e all’epoca sede dell’Accademia). Quindi il citato “segnale fisso di mira” si trova esattamente a nord dell’attuale Biblioteca Civica (per chi si voglia dilettare a verificare, il segnale ha coordinate 45° 41’ 16” N 23° 45’ 54”, corrispondenti secondo il riferimento Gauss Boaga a N 5060122 / E 2423842).
Probabilmente tale segnale rimase in uso solo per pochi anni. Nel 1898 l’Osservatorio astronomico fu trasferito nella sede attuale di Castel Basevi, rendendolo inutile; le operazioni di rimboschimento, avviate nel 1895, devono averlo in breve celato.
Cadde quindi nell’oblio, ed in qualche momento fu anche abbattuto (il cartello esplicativo, posto a fianco della struttura, ipotizza che sia stato abbattuto negli anni ’60; a meno che non vi siano testimonianze in tal senso, non è da escludere che sia stato demolito dall’esercito Austro-Ungarico nel corso della Prima Guerra Mondiale: doveva essere ancora identificabile, non ancora sommerso dalla vegetazione, e quindi poteva costituire un pericoloso punto di riferimento per l’artiglieria italiana).
Dopo la riscoperta è stato restaurato, con il contributo del Rotary Club Trieste Nord e per mano degli allievi di Edilmaster – Scuola Edile di Trieste.
Oggi, circondato dagli alberi, non è certamente più visibile dalla città.
Per raggiungerlo: partendo da Monte Grisa, seguiamo la stradina asfaltata della Via Crucis, e proseguiamo fino a raggiungere i limiti del bosco Burgstaller-Bidischini (individuato da un cartello ad un incrocio).
All’incrocio in questione, abbandoniamo (finalmente!) l’asfalto e prendiamo la stradina forestale a destra. Appena raggiunta la cresta, un cartello ci indicherà che 30 metri a sinistra, nel bosco, si trova il Segnale di Mira.
mercoledì 22 luglio 2009
Canovella de' zoppoli
Sulla costa ai piedi del Carso, proprio sotto all'abitato di Aurisina, si trova il porticciolo con l'altisonante nome di "Canovella de' zoppoli".
E' un porticciolo piccolo e pittoresco, sovrastato da terrazzamenti coltivati a vite.
Visualizzazione ingrandita della mappa
Il nome deriva da un non spiegato toponimo, "Conouella" che compare già nel XVI sec. (se non prima). E gli zoppoli... cosa sono gli zoppoli?
Lo zoppolo, o "Čupa", è un'antica imbarcazione, semplice ai limiti del primitivo.
E' costituita da un unico tronco di Pino Rosso o di Pino marittimo, scavato con l'accetta in modo da ricavarne uno scafo. Le misure "tradizionali" dello zoppolo sono: lunghezza 7 m, largezza 70 cm, altezza 60 cm, spessore 5-8 cm.
Su questo scafo veniva montata una larga traversa per gli scalmi, che sostenevano due remi lunghi 6 metri.
Le origini dello zoppolo sono ovviamente antichissime, e volendo si potrebbero far risalire anche alla più remota preistoria... Limitandosi alla storia, le menzioni più antiche degli zoppoli si hanno in Dalmazia già dal 1272, mentre nella nostra zona viene menzionato per la prima volta nel 1621, allorchè il Conte di Duino ne confiscò uno ai pescatori di Santa Croce, che avevano pescato abusivamente nelle sue acque.
Lo zoppolo rimase in uso presso i pescatori della zona fino a tempi molto recenti: l'uso era ancora diffuso nel periodo tra le due guerre.
Oggi ne sopravvivono solo tre esemplari:
- lo zoppolo "Maria", costruito ad Aurisina nel 1890, ed esposto al museo etnografico di Lubiana
- lo zoppolo "Lisa". costruito anch'esso ad Aurisina ma nel 1882, conservato nella Collezione de Henriquez
- ed infine uno zoppolo, di costruzione recente, è conservato nella sede di Sistiana dello Yacht Club Čupa (che ne prende, appunto, il nome)
Gli zoppoli venivano custoditi appunto nella zona di Canovella, ma non nel porticciolo che vediamo oggi e che è di costruzione recente (fu costruito dal Governo Militare Alleato nel 1953). Gli zoppoli venivano tirati in secca e conservati su alcuni gradoni, visibili ancor oggi, chiamati "fasalli".
A fianco dell'attuale porticciolo si vedono i resti dell'antico porticciolo romano; resti dell'epoca romana furono rinvenuti anche sul pianoro sovrastante. Si trattava probabilmente di una stazione in qualche maniera collegata con le cave, ed in questo porticciolo venivano imbarcati i blocchi di pietra di Aurisina estratti dalle cave.
E' un porticciolo piccolo e pittoresco, sovrastato da terrazzamenti coltivati a vite.
Visualizzazione ingrandita della mappa
Il nome deriva da un non spiegato toponimo, "Conouella" che compare già nel XVI sec. (se non prima). E gli zoppoli... cosa sono gli zoppoli?
Lo zoppolo, o "Čupa", è un'antica imbarcazione, semplice ai limiti del primitivo.
E' costituita da un unico tronco di Pino Rosso o di Pino marittimo, scavato con l'accetta in modo da ricavarne uno scafo. Le misure "tradizionali" dello zoppolo sono: lunghezza 7 m, largezza 70 cm, altezza 60 cm, spessore 5-8 cm.
Su questo scafo veniva montata una larga traversa per gli scalmi, che sostenevano due remi lunghi 6 metri.
Le origini dello zoppolo sono ovviamente antichissime, e volendo si potrebbero far risalire anche alla più remota preistoria... Limitandosi alla storia, le menzioni più antiche degli zoppoli si hanno in Dalmazia già dal 1272, mentre nella nostra zona viene menzionato per la prima volta nel 1621, allorchè il Conte di Duino ne confiscò uno ai pescatori di Santa Croce, che avevano pescato abusivamente nelle sue acque.
Lo zoppolo rimase in uso presso i pescatori della zona fino a tempi molto recenti: l'uso era ancora diffuso nel periodo tra le due guerre.
Oggi ne sopravvivono solo tre esemplari:
- lo zoppolo "Maria", costruito ad Aurisina nel 1890, ed esposto al museo etnografico di Lubiana
- lo zoppolo "Lisa". costruito anch'esso ad Aurisina ma nel 1882, conservato nella Collezione de Henriquez
- ed infine uno zoppolo, di costruzione recente, è conservato nella sede di Sistiana dello Yacht Club Čupa (che ne prende, appunto, il nome)
Gli zoppoli venivano custoditi appunto nella zona di Canovella, ma non nel porticciolo che vediamo oggi e che è di costruzione recente (fu costruito dal Governo Militare Alleato nel 1953). Gli zoppoli venivano tirati in secca e conservati su alcuni gradoni, visibili ancor oggi, chiamati "fasalli".
A fianco dell'attuale porticciolo si vedono i resti dell'antico porticciolo romano; resti dell'epoca romana furono rinvenuti anche sul pianoro sovrastante. Si trattava probabilmente di una stazione in qualche maniera collegata con le cave, ed in questo porticciolo venivano imbarcati i blocchi di pietra di Aurisina estratti dalle cave.
lunedì 13 luglio 2009
La cisterna romana di Opicina
La cisterna romana di Opicina, o Cisterna di Ovçjak, si trova in una dolina in prossimità della centrale elettrica:
Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori
Le sue origini sono antiche, ma la sua forma attuale risale al 1836. Utilizzata inizialmente come fonte d'acqua per l'abitato, poi come "jazera", infine poi come sorgente d'acqua per le locomotive.
La larga carrareccia, che scende a spirale lungo i versanti della dolina, serviva proprio per il transito dei carri che dovevano prelevare l'acqua per le locomotive della vicina stazione ferroviaria.
Con i suoi 12 metri di diametro, è una delle opere più grandi nel suo genere; e, come tutti gli specchi d'acqua del Carso, è importantissimo dal punto di vista naturalistico, per la varietà di fauna che ospita.
Ovviamente, non manca in rete chi parli di usi rituali del luogo, per celebrazioni di improbabili dee lunari, decantando come la luna si rifletta nello specchio d'acqua...
Visualizza Carso segreto in una mappa di dimensioni maggiori
Le sue origini sono antiche, ma la sua forma attuale risale al 1836. Utilizzata inizialmente come fonte d'acqua per l'abitato, poi come "jazera", infine poi come sorgente d'acqua per le locomotive.
La larga carrareccia, che scende a spirale lungo i versanti della dolina, serviva proprio per il transito dei carri che dovevano prelevare l'acqua per le locomotive della vicina stazione ferroviaria.
Da Cisterna Romana di Opicina |
Con i suoi 12 metri di diametro, è una delle opere più grandi nel suo genere; e, come tutti gli specchi d'acqua del Carso, è importantissimo dal punto di vista naturalistico, per la varietà di fauna che ospita.
Da Cisterna Romana di Opicina |
Ovviamente, non manca in rete chi parli di usi rituali del luogo, per celebrazioni di improbabili dee lunari, decantando come la luna si rifletta nello specchio d'acqua...
mercoledì 1 luglio 2009
il monumento scomparso dell'Artiglieria A.U.
Dopo la vittoria di Caporetto, nella baia di Sistiana venne collocato un piccolo monumento, celebrativo dell’Imperial Regia Artiglieria Austro-Ungarica.
Si trattava di una pregevole riproduzione del mortaio da 15cm M80, probabilmente realizzata in pietra d’Aurisina.
Qui possiamo vedere com'era il mortaio M80 originale, preso a modello per il monumento:
(fonte: moesslang.net)
Tale manufatto, in un qualche momento successivo alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, finì nella collezione di Diego de Henriquez; tanto che, negli anni ’70, era visibile presso il deposito all’aperto che il famoso ed appassionato collezionista aveva a Padriciano.
Negli anni successivi alla misteriosa morte di de Henriquez, scomparve pure una parte rilevante della sua collezione, in maniera quasi mai limpida. Tale fu la sorte che toccò anche a questo pregevole mortaio in marmo, del quale oggi ci è rimasta soltanto una foto (scattata dal col. Abramo Schmid nel 1970 a Padriciano):
Probabilmente oggi questa scultura fa mostra di sé nell’indegna cornice di qualche giardino privato o dell’atrio di qualche villa…
Se quindi vi doveste ricordare di averlo visto da qualche parte... tirate fuori dalla naftalina il vostro senso civico, e segnalatelo alle autorità.
E' un piccolo pezzo della nostra storia, che sarebbe bello tornasse ad esser di tutti.
Si trattava di una pregevole riproduzione del mortaio da 15cm M80, probabilmente realizzata in pietra d’Aurisina.
Qui possiamo vedere com'era il mortaio M80 originale, preso a modello per il monumento:
(fonte: moesslang.net)
Tale manufatto, in un qualche momento successivo alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, finì nella collezione di Diego de Henriquez; tanto che, negli anni ’70, era visibile presso il deposito all’aperto che il famoso ed appassionato collezionista aveva a Padriciano.
Negli anni successivi alla misteriosa morte di de Henriquez, scomparve pure una parte rilevante della sua collezione, in maniera quasi mai limpida. Tale fu la sorte che toccò anche a questo pregevole mortaio in marmo, del quale oggi ci è rimasta soltanto una foto (scattata dal col. Abramo Schmid nel 1970 a Padriciano):
Probabilmente oggi questa scultura fa mostra di sé nell’indegna cornice di qualche giardino privato o dell’atrio di qualche villa…
Se quindi vi doveste ricordare di averlo visto da qualche parte... tirate fuori dalla naftalina il vostro senso civico, e segnalatelo alle autorità.
E' un piccolo pezzo della nostra storia, che sarebbe bello tornasse ad esser di tutti.
Aggiornamento del 9 aprile 2013:
Grazie agli appassionati del gruppo KuK i.r.97 - Freiherr von Waldstätten Triest . Trieste, sono state trovate due immagini del monumento originale. E c'è chi sta già pensando di ricostruirlo...L'iscrizione recita: "Den Gefallenen kameraden, k.k.lst art.reg n°4, ? marsch kompanie, batterien wildpark Sablici,1915 191?" |
Questa immagine è probabilmente del dopoguerra: non vi compare l'aquila bicipite (presente invece nella foto precedente), probabilmente rimossa nel generale "repulisti" dei simboli Austro Ungarici. |