(foto di London_ally)
Si dice "Miramar" o "Miramare"?
Oggi si tende a considerare "Miramar" la versione dialettale di "Miramare", che quindi parrebbe quella corretta...
E già ai tempi dell'edificazione del celebre castello, la forma "Miramare" era diffusa sulla stampa e anche nei documenti ufficiali in italiano.
Giosué Carducci titola una sua ode "Miramar" (Odi Barbare, I libro) ma, nel testo, scrive poi "Miramare"... lasciando la questione irrisolta.
E allora? "Miramar" o "Miramare"?
L’Osservatore Triestino del 9/9/1858 precisa:
all’augusto possessore di quella punta di terra chiamata punta di Grignano, piacque intitolarla col nome spagnuolo di Miramar, che significa semplicemente “Guardar sul mare”, mentre Miramare sarebbe bensì il nome italianizzato... però non esprimerebbe l’intendimento concepito dal serenissimo Arciduca.
In conclusione: "Miramar" è il nome originale, e "Miramare" solo la successiva versione italianizzata.
"Miramar" ha quindi cittadinanza non solo come "versione dialettale", ma anche come "voce dotta".
E Carducci titolò correttamente "Miramar", e probabilmente usò la forma "Miramare" nel testo per esigenze di metrica.
Poiché ho osservato che l'ode "Miramar" tutto sommato non è nota come ci si aspetterebbe (almeno dalle nostre parti)... concludo proponendovene la lettura:
Miramar
O Miramare, a le tue bianche torri
attedïate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
O Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastïon di scogli
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.
Deh come tutto sorridea quel dolce
mattin d'aprile, quando usciva il biondo
imperatore, con la bella donna,
a navigare!
A lui dal volto placida raggiava
la maschia possa de l'impero: l'occhio
de la sua donna cerulo e superbo
iva su 'l mare.
Addio, castello pe' felici giorni
nido d'amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
aura gli sposi.
Lascian le sale con accesa speme
istorïate di trionfi e incise
di sapïenza. Dante e Goethe al sire
parlano in vano
de le animose tavole: una sfinge
l'attrae con vista mobile su l'onde:
ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro
del romanziero.
Oh non d'amore e d'avventura il canto
fia che l'accolga e suono di chitarre
là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
lunga su l'aure
vien da la trista punta di Salvore
nenia tra 'l roco piangere de' flutti?
Cantano i morti veneti o le vecchie
fate istriane?
- Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro,
figlio d'Absburgo, la fatal Novara.
Teco l'Erinni sale oscura e al vento
apre la vela.
Vedi la sfinge tramutar sembiante
a te d'avanti perfida arretrando!
È il viso bianco di Giovanna pazza
contro tua moglie.
È il teschio mózzo contro te ghignante
d'Antonïetta. Con i putridi occhi
in te fermati è l'irta faccia gialla
di Montezuma.
Tra boschi immani d'agavi non mai
mobili ad aura di benigno vento,
sta ne la sua piramide, vampante
livide fiamme
per la tenèbra tropicale, il dio
Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
e navigando il pelago co 'l guardo
ulula - Vieni.
Quant'è che aspetto! La ferocia bianca
strussemi il regno ed i miei templi infranse;
vieni, devota vittima, o nepote
di Carlo quinto.
Non io gl'infami avoli tuoi di tabe
marcenti o arsi di regal furore;
te io voleva, io colgo te, rinato
fiore d'Absburgo;
e a la grand'alma di Guatimozino
regnante sotto il padiglion del sole
ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
Massimiliano.
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