Non tutti sanno che l'aspetto attuale del Carso, con i suoi boschi di pini, è cosa tutto sommato recente.
Due secoli fa il paesaggio più comune era la cosiddetta "landa carsica", ovvero poco più di un deserto roccioso, utilizzabile al più come stentato pascolo.
Come accennavo qui, il rimboschimento fu il risultato di un'opera titanica, realizzata a cavallo tra il XIX ed il XX secolo e, come vedremo, non priva di difficoltà.
Dettagli interessanti li ho scoperti in uno scritto di Ario Tribel - L’imboschimento del Carso (in “Guida dei dintorni di Trieste”, Società Alpina delle Giulie, Trieste 1909), che vi riporto di seguito:
Chiunque spinga i suoi passi sul brullo altipiano che sovrasta e circonda Trieste, rimarrà colpito da segni non dubbi di un’opera gigantesca, che lentamente ma costantemente progredisce e riuscirà certo a tramutare la melanconia di quei deserti di pietre nella ridente ubertà d’un suolo avvivato dal verde dei prati e dei boschi, vanto non piccolo questo della feconda operosità del patrio Consiglio, iniziatore e collaboratore di tale opera.
[…] L’impulso dell’opera feconda del rimboschimento del nostro altipiano partì dalla mente illuminata di Domenico Rossetti.
La Municipalità di Trieste, seguendo le sollecitazioni dell’illustre concittadino, ed i consigli del governatore d’allora, conte Francesco Stadion, iniziò nel 1842 le prime colture forestali nel Carso, che però, al pari degli esperimenti ripresi nel 1857, non sortirono l’effetto sperato, essendosi trascurate le più elementari cautele.
Il Comune di Trieste, per meglio riuscire nell’intento, nominò poi uno speciale commissione, la quale, assicuratasi l’opera ed il consiglio dell’ispettore forestale di Gorizia, Giuseppe Koller, fece rimboscare, nel 1859, due appezzamenti di terreno con piantagioni, a formelle e fosse, di pino nero e silvestre, frammistia essenze legnose indigene.
Questi esperimenti, continuati ed estesi poi con successo dalla commissione municipale, dimostrarono essere il pino nero la pianta più adatta alle condizioni del suolo e del clima del nostro altipiano, e meglio resistente.
In seguito il Consiglio municipale affidò la cura del rimboschimento ad uno speciale “comitato amministrativo d’imboschimento del Carso”, composto di tre membri del Consiglio municipale e di tre membri della Società Agraria, con a capo il presidente della Società stessa. Il comitato si costituì il 20 aprile 1870, con un annuo sussidio di fiorini 3000, assegnatigli dal Comune.
L’opera benefica di questo comitato vive negli appezzamenti da esso artificialmente rimboschiti, che allietano ora non piccole parti del territorio di Trieste, col verde intenso dei pini. Sono diciotto i boschi comunali da esso creati col nome d’uomini benemeriti che dedicarono cure e studi amorosi all’opera di rimboschimento.
Fino al 1882, nel quale anno il comitato amministrativo si sciolse, furono rimboschiti 109 ettari e 8288 m.q. di terreno, con 917.352 piantine. In tal modo sorsero i seguenti boschi comunali, la maggior parte di pino nero: Biasoletto (Chiadino), Napoli (S. Maria Maddalena Inferiore), Mauroner e Rossetti (Banne), Conti (Contovello), Volpi, Tommasini, Bertolini e Burgstaller-Bidischini (Opicina), Koller, Stadion, Nobile, Porenta e Pascotini (Basovizza), Captano e Kandler (Trebiciano), Scopoli (Padriciano), Vordoni e Mattioli (Gropada). Presso ogni bosco vi è una colonnetta recante lo stemma cittadino, le lettere B.C., che significano “Bosco Comunale”, il nome del bosco stesso, un numero romano indicante la serie, nonché l’anno in cui si diede principio alla piantagione.
Al “comitato amministrativo” subentrò la “commissione d’imboschimento del Carso”, che in base alla legge del 27 decembre 1881, deve restare in attività vent’anni. Questa commissione disimpegnò finora brillantemente il suo compito. Dalle relazioni pubblicate dal solerte ispettore forestale provinciale Giuseppe Pucich, apprendiamo che dell’area totale di ettari 1169 (quale appare dal catasto boschivo) destinata all’imboschimento, nel territorio di Trieste, dal 1882 al 1906, furono coperti di piantagioni 823.16 ettari, con una spesa di 152,695.50 corone.
Complessivamente furono impiegati 4261 chg. di semi e 10.905.180 piante, compresi i risarcimenti di vecchie colture e l’allevamento del sottobosco. (in media si collocano annualmente nel nostro territorio oltre mezzo milione di piantine e talee, con una spesa di 7-8000 corone all’anno.)
Delle varie essenze legnose furono prescelte fa le aghifoglie: il pino nero, il pino paroliniano, il pino d’Aleppo, il pino strobo, il pino laricio, (della Corsica), l’abete eccelso, l’abete bianco, il larice europeo, ecc.; e fra le latifoglie: l’acero, l’olmo, il frassino, il carpino, l’alno, la robinia, la quercia ed il faggio, che sono tra le specie legnose indigene del Carso.
Circa il metodo di coltura adottato per il rimboschimento del Carso si deve osservare come, in seguito alla prevenzione che le piante latifoglie indigene dovessero allignarvi meglio di tutte le altre, nelle prime colture sono state preferite appunto le piante a foglia larga, con la seminagione di circa 15.000 chg. di ghianda. Ma dopo alcuni anni queste piante perirono quasi tutte. Si ricorse allora alle conifere, e fra queste specialmente al “pino nero”, che diede ottimi risultati, mentre le altre aghifoglie, come larici, abeti, ecc. non corrisposero che mediocremente.
Il pino nero infatti sopporta a meraviglia i lunghi periodi di siccità della regione carsica e resiste vigorosamente alla violenza della bora; inoltre dà al suolo ricca messe di spoglie atte a produrre in pochi anni uno strato di terra vegetale ed preparare così il terreno a future piantagioni d’essenze legnose miste. Questo sarebbe l’ideale dell’imboschimento del nostro altipiano, tanto che per cura della commissione triestina, nei boschi di 35-40 anni, da rinnovarsi fra breve, furono iniziati precisamente allevamenti di sottobosco misto, destinati a sostituire col tempo le pinete ora esistenti.
Lasciato da parte il sistema delle seminagioni, che diede sinora risultati poco incoraggianti, si segue adesso, meno in singoli casi, quello delle piantagioni in buche (formelle) scegliendo di preferenza le piantine di due anni coltivate in appositi vivai. Le nuove piantagioni si eseguiscono in primavera, essendo le colture primaverili meno esposte ai danni della bora. (per difenderle dalla violenza della bora, le piantine vengono attorniate da sassi, che giovano pure a mantenere più a lungo l’umidità del terreno.)
I piantoncini si tolgono da appositi vivai tenuti a spese delle commissioni, e dagli orti forestali dello stato. La commissione triestina istituì già nel 1882 l’orto stabile di Basovizza, dell’area di 2700 m.q., il quale, dopo le migliorie recentemente introdottevi, è in grado non solo di fornire i piantoncini richiesti per gl’imboschimenti di quella commissione ma anche di cederne annualmente allo stato ed ai privati.
La deficienza di terra sull’altipiano ne rende in molti casi necessario il trasporto a mezzo di carri da siti anche lontani; altre volte invece si ricorre con minor spesa, allo strato di “humus” che provvidenzialmente riveste il fondo delle conche (doline), veri serbatoi di terra vegetale.
Oltre che dalle lunghe siccità estive e dalla violenza della bora, che sono i nemici acerrimi delle nostre colture forestali, altri danni non lievi vengono recati alle piantagioni boschive del Carso da voraci insetti che distruggono il novellame; e non di rado si aggiunge poi il vandalismo umano che, per ignoranza, per malizia, o per ire di partito, colpisce le opere di civiltà con l’arma terribile del fuoco. Solo nel territorio di Trieste, dal 1882 al 1906 si ebbero 71 incendio di boschi, di cui non pochi dovuti alle solite… “cause ignote”.
Ma se un giorno, come ormai appare certo, l’imboschimento del Carso riuscirà a dare al nostro altipiano l’antico decoro di selve e di prati, lo stesso carsolino benedirà indubbiamente l’opera feconda, da lui inconsultamente osteggiata, apportatrice di benefici immensi, oggetto d’ammirazione per il forestiere e di vanto per il nostro Comune (L’opera delle commissioni riunite d’imboschimento del Carso venne premiata col “Grand Prix” all’esposizione mondiale di Parigi del 1900.)
Quello del piromane sloveno non era un mito personale del Tribel. Ne parla anche Scipio Slataper (peraltro, con una certa perversa ammirazione) ne “Il mio Carso”:
Lo sloveno mi guarda seccato. - Brucia i boschi che gli italiani, gente sfatta di venti secoli, portarono qui per potere andare a sentire la conferenza di Donna Paola e entrar nella Borsa senza bora! - Lo sloveno mi dà un'occhiata sghignante, taglia un ramo, estrae di tasca vecchi fiammiferi che ardon con lenta fiamma violetta, e accende paziente il foco. Io l'aizzo, ma egli fa un passatempo di pastore; io l'aizzo come se fossi slavo di sangue. O Italia no, no! Quando il boschetto cominciò ad ardere, io m'impaurii e volli correre per soccorso. Ma egli mi. disse: - Xe lontan i pompieri - ;sorrise lentamente, raccolse la frusta, e andò spingendo le quattro vacche. Io mi sdraiai, sfinito. "Così calava Alboino!"
Oggidì l'aspetto e l'ambiente del Carso è senz'altro diverso e, indubbiamente, migliore - anche perchè la diffusione del bosco ha arricchito enormemente il patrimonio faunistico. Limitate zone di landa carsica sopravvivono ancora, e mantenerle tali è però un bene: non solo come testimonianza ambientale, ma anche per la necessaria differenziazione. Infatti anche se l'ambiente del bosco è più ricco, è anche essenzialmente diverso da quello della landa carsica; quindi, perdere del tutto la landa carsica significherebbe anche perdere parte del patrimonio ambientale.
1 commento:
Il risultato odierno non è dei migliori: il pino nero, che doveva essere un'essenza transitoria per preparare il terreno per le latifoglie è diventato invasivo, mentre la landa carsica, importantissima per la biodiversità come hai giustamente accennato, rischia di scomparire del tutto.
Ciao, Zigolo
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